Chi non ricorda la famosa scena della lettera, nel mitico film Totò, Peppino e la malafemmina, quando, alla fine della faticosa impresa, Totò chiede allo scrivano Peppino se vuole aggiungere qualcosa di suo e quest’ultimo gli risponde “… senza nulla a pretendere …”.
Ora, a distanza di 60 anni dal film di Camillo Mastrocinque, il valore giuridico della locuzione “… senza nulla a pretendere …” è stato oggetto di esame da parte della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con sentenza n. 8606 del 2 maggio 2016.
L'atto con il quale il lavoratore dichiara di non avere altro a pretendere, a seguito della corresponsione di una determinata somma di denaro, - per i giudici - non può considerarsi, per ciò solo, una rinunzia a tutti i diritti scaturenti dal rapporto di lavoro, in quanto tale locuzione è estremamente generica e non sempre è in grado di richiamare l'attenzione del lavoratore sui molteplici diritti che scaturiscono dal rapporto medesimo.
Ne consegue che non può assumere natura di transazione e non è identificabile come la "reciproca concessione" di cui all'art. 1965 c.c. la quietanza liberatoria sottoscritta dal lavoratore, la cui natura legale è quella di atto giuridico in senso stretto, mentre la rinuncia e la transazione sono negozi.
La rinuncia del lavoratore presuppone, per la propria validità ed efficacia, che questi abbia l'esatta rappresentazione dei diritti di credito di sua spettanza, che sia perfettamente consapevole che nulla ne infici la legittimità e che, ciò nonostante, volontariamente intenda privarsi della totale o parziale realizzazione delle varie ragioni creditorie, specificamente determinate o almeno determinabili.
In sintesi, la quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa deve essere intesa, di regola, come semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti e, pertanto, alla stregua di una dichiarazione di scienza priva di efficacia negoziale.