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Mercoledì, 24 Apr 2024

anvur logoDue anni e nell'università italiana non è cambiato praticamente nulla o quasi.

E’ quanto emerge dal Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2016, presentato a Roma dall’Anvur martedì scorso.

I risultati ottenuti dai nostri ricercatori sono fra i migliori al mondo, a riprova della buona didattica dei nostri atenei, nonostante l’elevato rapporto numerico studenti/docenti e le scarse risorse impiegate per studente. Problemi che sono l'esito di riforme sbagliate che in un'ottica liberista hanno cercato di smantellare l'istituzione pubblica e democratica che conoscevamo.

Cambiano i governi ma la filosofia resta la stessa, e così il corpo docente si assottiglia sempre più, è fra i più vecchi d'Europa e nuovi ricercatori, ormai a tempo determinato, hanno scarse prospettive, alle prese, come sono, con la roulette russa dell'Abilitazione scientifica nazionale e delle tante valutazioni a cui sono sottoposti. Un meccanismo selettivo, solo apparentemente tra i più meritocratici. Una selezione tanto dubbia da esser frequentemente ribaltata nelle aule di giustizia. E così, sono sempre più numerosi i ricercatori in fuga. Un patrimonio prezioso che stiamo regalando al resto del mondo.

L'università ormai per sopravvivere è costantemente impegnata nei processi connessi alla valutazione della qualità della ricerca (VQR), i cui risultati sono strettamente correlati agli incentivi economici nella distribuzione del fondo di finanziamento ordinario (FFO). Persino le retribuzioni dei docenti sono legate al merito. All’autovalutazione interna si affianca quella esterna, condotta appunto dall’Anvur.

Insomma, l'università italiana è sempre sotto esame, come riconosce la stessa Agenzia si è trattato di uno sforzo che ”non ha sempre trovato un adeguato sostegno nelle politiche pubbliche”, vista la continua riduzione dei finanziamenti.

Ma v'è di più, come ammette lo stesso Rapporto, “l’insufficienza dei fondi volti a sostenere il diritto allo studio, spesso gestiti a livello regionale con notevoli disparità territoriali, non permette di garantire l’uguaglianza delle opportunità richiesta dal dettato costituzionale”.

Abbandoni e insuccesso aumentano al punto che appare ormai chiaro che sarà difficile conseguire gli obiettivi della strategia “Europa 2020” .

Il nostro premier parla tanto di innovazione ma come intenda raggiungerla è un mistero se, mentre in Italia l'obiettivo è arrivare ad investire l'1,5% del Pil in ricerca, nel resto d'Europa già si investe il 3%. Con queste risorse è difficile arrivare al 40% di giovani con titolo di formazione terziaria, considerato che siamo ancora al 26%.

Il 90% degli studenti è concentrato nei 61 atenei pubblici, l’83% è iscritto nei 41 atenei medio-grandi - ciascuno con almeno 15.000 studenti iscritti - che offrono 4.586 corsi: 2.255 di primo livello, 2.015 di secondo e 316 a ciclo unico (erano 5.879 nel 2007/08) e 910 corsi di Dottorato.

Le maggiori riduzioni di corsi si contano nelle aree di Scienze chimiche, Scienze della terra e Scienze agrarie e veterinarie, in particolare, negli atenei del centro.

Solo il 7% dei corsi è in lingua inglese, in compenso “vi sono 140 corsi di studio che offrono percorsi in convenzione con atenei stranieri finalizzati al rilascio del doppio titolo o del titolo congiunto, mentre i corsi che offrono convenzioni con altri paesi finalizzate alla mobilità degli studenti sono oltre 1.400”.

I corsi a ciclo unico sono saliti a 316, a riprova che quella del 3+2 è stata una riforma sbagliata.

Nelle 140 istituzioni di Alta Formazione Artistica, Musicale e coreutica (AFAM) si erogano circa 6.500 corsi di studio frequentati da oltre 86.000 studenti (11% stranieri), di cui circa il 44% nel settore delle belle arti, e il resto nel comparto musicale, in cui è però presente una cospicua quota di studenti che frequenta contemporaneamente la scuola secondaria (circa 26.000 studenti).

Nel complesso delle Afam, in quindici anni, il numero degli studenti è praticamente raddoppiato, soprattutto in aree innovative come design, restauro, nuove tecnologie, nuovi media, beni culturali. E dire che il legislatore dal 1999 ad oggi non ha ancora provveduto ad emanare i regolamenti attuativi del settore, che resta praticamente immune dalle continue valutazioni a cui invece è sottoposta l'università. E così, ad esempio, i docenti vengono ancora assunti sulla base di graduatorie e senza selezioni nazionali, peraltro, i più sono docenti a contratto, solo il 40% è a tempo indeterminato.

In un paese dove l'emigrazione di giovani laureati cresce di anno in anno, ci si aspetterebbe di avere studenti ben disposti a studiare all'estero e invece scopriamo che meno del 5% dei laureati italiani ha un’esperienza di almeno 3 mesi di studio all’estero, 10% quelli che hanno conseguito almeno 1 CFU presso un’istituzione estera.

Saranno un po' “bamboccioni”, per dirla alla Padoa Schioppa? Il fatto che in media solo il 9,3% partecipa a stage e tirocini formativi sembrerebbe confermare l'ipotesi. In realtà, se si va a vedere la distribuzione territoriale, si comprende che il fenomeno riflette il nostro sistema produttivo, tant'è che, mentre nel nord est il 14,1% sceglie di fare queste esperienze, al sud è solo il 5%.

Nonostante la crisi e le scarse risorse dedicate al diritto allo studio, le famiglie, seppure con grandi sacrifici, hanno ripreso ad iscrivere i figli all'università, le immatricolazioni sono salite dell'1,6% (del 2,4% tra i neodiplomati).

Quale è l'identikit dello studente? Le matricole sono prevalentemente donne (55%), vivono in maggioranza al nord. Solo il 9% sono figli di immigrati, pochi provengono dagli istituti tecnici, molti dai licei scientifici. Sono più quelli che si iscrivono fuori regione (22%, erano il 18%). Dal mezzogiorno preferibilmente al centro nord (+24%).

Ma, a ben vedere, se è vero che negli atenei meridionali gli studenti sono diminuiti del 17%, con una punta del 26% nelle isole, non va meglio al centro, dove il calo è stato del 5% e nel nord-est del 1%.

Le più gettonate sono le università del nord ovest (+4%), forse anche perché meglio collegate con un ricco tessuto produttivo, tant'è che il Piemonte registra un incremento del 26% di iscritti provenienti da altre regioni.

Sale la percentuale di laureati “regolari”, dal 34,9% al 44,5% , ma resta alto, al 14% il tasso di abbandono tra primo e il secondo anno nei corsi triennali di primo livello, mentre si confermano tassi di abbandono decisamente più bassi nei corsi a ciclo unico, specialmente Farmacia e Medicina, dove la percentuale è del 6-7%.

Complessivamente, il 42% lascia l'università, nel resto d'Europa la media è 31% e 30% la media OCSE. La maglia nera per gli abbandoni va sempre agli studenti provenienti dagli istituti professionali (tra il 44% e il 48%).

Resta alta la mobilità, i passaggi di corso o di ateneo tra il primo e il secondo anno, che coinvolgono circa il 15% degli immatricolati nei corsi triennali, mentre sono sotto il 2% nei corsi di laurea magistrale ai quali pure si iscrive il 58% dei laureati triennali (un dato, questo, in crescita di circa un punto all’anno).

In media abbiamo 300mila laureati l'anno, di cui circa il 59% sono donne, prevalentemente provenienti da un liceo scientifico. Un numero che, rapportato alla popolazione della classe d'età 23-34 anni, corrisponde a un basso tasso di laureati, 24% contro il 37% della media UE e il 41% dell'OCSE, d'altronde il nostro Paese presenta un tasso di accesso all'istruzione terziaria del 42%, mentre la media UE è del 63% e quella OCSE del 67%.

Ma, a differenza degli altri paesi, da noi mancano all'appello soprattutto i giovani adulti già introdotti nel mondo del lavoro. Un gap in gran parte dipendente dall'assenza di corsi a carattere professionale, come avviene ad esempio in Germania, e dal basso livello di competenze con cui si esce dalla scuola superiore, se è vero, come è, che “dai risultati della Survey of Adult Skills – PIAAC (OCSE) condotta nel 2012, l’Italia risulta all’ultimo posto nella graduatoria dei paesi partecipanti.

Avere una laurea dà maggiori opportunità di lavoro, a tre anni dal conseguimento del titolo è occupato il 66% dei laureati triennali, il 70% dei laureati magistrali biennali e il 49% dei laureati a ciclo unico.

Il sistema universitario continua ad essere sottofinanziato, anche se, per il 2016 sono stati lievemente incrementati i fondi per il diritto allo studio. La quota di finanziamento pubblico, 7,25 mld nel 2015, resta inferiore alla media OCSE e parecchio distante dalla media europea. Il FFO viene ripartito in parte su base storica, in parte sulla base del costo standard studente e in parte sulla base dei meccanismi premiali.

Il livello delle tasse universitarie è relativamente basso se confrontato con quello dei paesi anglosassoni, ma elevato rispetto a quello degli altri paesi europei, tanto più, ove si considerino gli scarsi interventi di sostegno agli studi (in Norvegia non si paga nulla e il 75% degli studenti usufruisce di un aiuto) erogati sempre in ritardo. Sostegni che da un anno all'altro possono diminuire, e che variano notevolmente da una regione all'altra se non, addirittura, nella stessa regione sia nei requisiti di accesso che nei tempi di erogazione.

Il 47,3% della spesa regionale per gli interventi di sostegno agli studenti è coperto dalla tassa universitaria regionale, che negli ultimi anni è stata elevata a 140 euro nella maggior parte delle regioni. Il Fondo Integrativo Statale (FIS), istituito per finanziare i prestiti d’onore e attualmente destinato anche al finanziamento delle borse di studio si è stabilizzato intorno a 160 milioni di euro annui. La percentuale di beneficiari di borse di studio rispetto agli idonei è aumentata dal 68,8% al 76,5%, ma è un aumento dovuto alla crescita del numero di borsisti cui corrisponde un numero stabile di idonei (161.735 erano 162.569 nel 2011/2012).

Ma veniamo alle dolenti note, se 1.071 euro è l’importo medio delle tasse pagate per l’iscrizione ad un ateneo statale, iscriversi al Sud o nelle Isole costa circa la metà rispetto ad un ateneo del Nord (circa € 700 per i primi e quasi € 1.400 per i secondi).

Ricercatori a tempo determinato e altri studiosi con i più svariati contratti di collaborazione, spesso retribuiti in maniera non soddisfacente, hanno potuto sopperire solo in parte al calo del 12% dei docenti di ruolo (dal 2008 ad oggi – 7.776). Per l'Anvur ”Questo rappresenta un indebolimento della capacità didattica dell’intero sistema universitario”.

Il rapporto numerico studenti/docenti è salito da 28,9 studenti per docente nel 2008, ai 30,2 nel 2010, oggi si attesta ancora su quella cifra solo perché c'è stato un calo degli studenti iscritti.

La composizione del corpo docente nell’ultimo decennio è cambiata profondamente, con i numerosi passaggi registrati dalla posizione di ricercatore (ruolo posto ad esaurimento) a quella di associato. Nel 2015, questi ultimi sono notevolmente aumentati mentre continuano a diminuire gli ordinari.

Il piano straordinario introdotto con il decreto ministeriale n. 78/2016, che prevede il reclutamento di 861 nuovi RTD di tipo B, sarà come una goccia nel mare, ove si consideri che, dal 2008 a oggi, tra docenti e ricercatori a vario titolo operano nell'università ben 38.616 persone in meno.

Quello dei docenti italiani è un universo prevalentemente maschile e attempato così, se nei paesi OCSE ogni 100 docenti 42 sono donne, in Italia tra gli ordinari sono il 21,6%, tra gli associati il 36,5% e tra i ricercatori il 46,5%, nonostante tra i laureati le donne siano circa il 59%.

Un altro dato significativo riguarda un tema di cui ci siamo occupati frequentemente, considerato l'alto livello di contenziosi in essere. Scrive l'Anvur, “la fruizione di un assegno di ricerca non equivale all'ingresso nella carriera accademica, su un totale di 44.345 studiosi che sono stati titolari di almeno un assegno di ricerca tra il 2009 e il 2015, solo il 7% risulta oggi abilitato alla qualifica di associato, lo 0,1% a quella di ordinario. Di contro, sul totale dei 5.643 studiosi che sono stati titolari di almeno un contratto RTD tra il 2009 e il 2015, il 29,3% risulta oggi abilitato alla qualifica di associato e tra questi l’1,1% anche a quella di ordinario, mentre lo 0,4% è in possesso della sola abilitazione a ordinario”. Un rallentamento nelle carriere universitarie che ha determinato l'innalzamento dell'età media dei docenti a 53 anni.

Ma come è andata? “Sono state presentate 56.539 domande di abilitazione, di cui 17.249 per professore ordinario (Prima fascia) e 39.290 per professore associato (Seconda fascia). Queste domande sono state presentate da 26.943 studiosi. Nell’insieme, le Abilitazioni attribuite sono state 24.294, pari al 43% del totale delle domande ... sembra di poter concludere che il timore, avanzato alla vigilia dell’entrata in vigore della ASN, di un accesso indiscriminato, possa essere fugato”.

Le domande provenienti da candidati non strutturati nelle università sono state ben 28.083. Di queste, il 31,1% ha ricevuto l’abilitazione (28,7% dei candidati a professore ordinario, 31,6% dei candidati a professore associato).

Per l'Anvur, “In tutte le tre categorie di candidati coloro che hanno ricevuto l’abilitazione presentano indicatori in media nettamente migliori dei non abilitati” un dato che sembra smentito da tante sentenze.

Su un totale di 3.204 posti messi a concorso dagli atenei, il 91% riguarda professori di seconda fascia, anche per effetto del piano straordinario per la chiamata dei professori associati. L'area scientifica con il maggior numero di chiamate è Scienze mediche (14%), quella con il minor numero è Scienze della terra (2%). “Non sembra invece esserci alcuna relazione tra la quota di posti a concorso nelle aree e i rispettivi tassi di abilitazione ... La maggior parte delle chiamate dei docenti è avvenuta nel Nord-ovest (29%), seguita da Nord-est (27%), da Centro (25%) e da Sud e Isole (19%). Il Centro è l’area con la quota più alta di chiamate di professori di seconda fascia (98%), mentre il Nord-ovest registra quella più bassa (87%)”. 50% dei bandi era ad accesso riservato al personale interno e solo il 4% a candidati esterni o a chiamata diretta senza tener conto degli indicatori bibliometrici dell'Asn. A chiamata diretta si è proceduto prevalentemente nel nord-ovest.

Ma quali sono in media i carichi orari di lavoro degli operatori dell'università? I professori associati 111,6 ore; gli ordinari 110,3; i ricercatori a tempo indeterminato 77,4; quelli a tempo determinato 67,8. In testa i docenti di ingegneria con 130,6 ore. Anche qui vi sono differenze territoriali e, a smentire i soliti pregiudizi, si scopre che si lavora di più al sud mentre in coda è il nord ovest.

Se nell'università pubblica il 25,5% (14.725) dei docenti è a contratto, con una durata media di 40,1 ore e copre il 15,7% degli insegnamenti, nelle università private è a contratto il 41% degli insegnamenti.

Quanto al personale tecnico-amministrativo, si è registrato un decremento del 21,8%, pari a oltre 7mila unità, concentrato quasi esclusivamente negli atenei del Centro-Sud (oltre 6mila addetti).

Ma quali sono le prospettive future se i corsi di dottorato sono diminuiti del 41% e se la percentuale di iscritti provenienti dall'estero è rimasta insoddisfacente?

L'Anvur ha poi esaminato lo stato della Ricerca in Italia, anche questo come l'università è per l'Agenzia un sistema in cui, ormai da diversi anni, “il finanziamento si basa sulla performance”.

Nel biennio esaminato, nonostante le roboanti dichiarazioni dei governi di turno, poco è cambiato. Con risorse pari all'1,27% del Pil dedicate a Ricerca e Sviluppo ci collochiamo al 18° posto tra i principali paesi OCSE, con valori superiori solo a Russia, Turchia, Polonia e Grecia. Il 2,35% al disotto della media OCSE e il 2,06% sotto la media Ue 28.

Anche qui si registrano due Italie, il solo Piemonte presenta quote di spesa in R&S prossime alle medie dei paesi UE e OCSE.

“La ripartizione delle quote di spesa tra settori istituzionali vede prevalere il settore privato, che rimane comunque sottodimensionato rispetto alla media europea, sui settori dell’istruzione superiore e pubblica”. Ma “la fonte di finanziamento prevalente per la spesa in R&S è stato il settore pubblico, nonostante la riduzione dei finanziamenti statali del 21% tra il 2008 e il 2014”.

Come sono distribuite le risorse? Il Fondo Ordinario per il finanziamento degli enti e istituzioni di ricerca (FOE), per l’anno 2015 ammonta a 1.666 milioni di euro.

Per i fondi dedicati ai Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale delle università (PRIN), c’è stato un bando solo alla fine del 2015, con uno stanziamento pari a 95 milioni di euro.

Le risorse dedicate al Fondo per gli Investimenti della Ricerca di Base (FIRB) si sono attestate nel 2014 ai livelli minimi degli ultimi anni. Tra i programmi, quello denominato SIR (Scientific Independence of young Researchers), bandito nel 2014 e destinato a sostenere i giovani ricercatori nella fase di avvio della propria attività di ricerca indipendente, ha avuto una dotazione di 54 milioni di euro.

Il Fondo per le Agevolazioni alla Ricerca (FAR) non è stato finanziato negli ultimi tre anni (2013-2015), su di esso hanno gravato i progetti che rientrano nel Programma Operativo Nazionale (PON). Recentemente è stato approvato dalla Commissione Europea il PON “Ricerca e Innovazione” 2014-2020, che prevede un budget complessivo di 1.286 milioni di euro per programmi di ricerca e innovazione al Sud.

Ma qual è la capacità dell’Italia di accedere ai finanziamenti europei nell’ambito del programma quadro denominato Horizon 2020 (H2020)? Per il settennio 2014-2020, su un totale di 180.000 progetti presentati, sono stati approvati e già avviati circa 5.000 progetti; 1.700 approvati ma non ancora avviati. Complessivamente, permane una significativa distanza tra il contributo italiano (12,5%) e i finanziamenti ottenuti (8,1% del totale erogato). Il tasso di successo del 10,6% è significativamente inferiore rispetto ad altri importanti paesi europei, cosicché all'Italia per ogni euro di contribuzione rientrano 0,66 centesimi, ma se si confrontano i risultati in rapporto alla numerosità del personale addetto alla ricerca, il divario si azzera o cambia segno.

Il personale di ruolo negli enti di ricerca vigilati dal Miur, tra il 2008 e il 2014 è aumentato del 18%; 40% sono donne, età media 49 anni. In aumento il personale di ricerca, in diminuzione gli amministrativi, che nel 2014 sono arrivati a poco più della metà delle unità del 2005.

Il personale precario è composto principalmente da ricercatori e tecnici.

Nel periodo 2011-2014, la quota italiana sul totale delle pubblicazioni mondiali si attesta complessivamente al 3,5%. La produzione scientifica nazionale cresce ad un tasso medio annuo del 4%, in lieve rallentamento rispetto ai periodi precedenti, con una specializzazione nelle Scienze biologiche, nelle Scienze della Terra, nelle Scienze fisiche, nelle Scienze mediche e nelle Scienze matematiche e informatiche.

La quota di collaborazioni internazionali risulta superiore a quella dei paesi dell’Unione Europea a 15 e del Mondo, e le pubblicazioni su riviste eccellenti è superiore alla media mondiale.

Nel complesso, l’Italia mostra una performance in linea con quella dei paesi dell’Unione Europea, anche se di poco inferiore a quella di Francia, Germania e Regno Unito, migliore rispetto ai paesi emergenti dei BRIC e a quelli asiatici.

“Nel periodo 2011-2014 l’impatto della produzione italiana è superiore alla media dell’Unione Europea e maggiore di Francia e Germania, collocandosi invece, in Europa, al di sotto di Svizzera, Olanda, Svezia e Regno Unito. Gli Stati Uniti si collocano poco al di sotto dell’Italia per impatto medio, ma con valori molto superiori per quota di pubblicazioni su riviste di eccellenza” scrive l'Anvur quindi si può dire che il settore R&S presenta “elevati valori di produttività se si rapporta la produzione scientifica sia alla spesa in ricerca destinata al settore pubblico e all’Istruzione Terziaria sia al numero di ricercatori attivi”. La produttività italiana si attesta sui livelli della Francia e supera quella tedesca, leader europeo resta il Regno Unito.

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