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Giovedì, 25 Apr 2024

Nella “Storia della colonna infame”, Manzoni scrive: “Ciò che essi (i giureconsulti, ndr) chiamavano arbitrio, era in somma la cosa stessa che, per iscansar quel vocabolo equivoco e di tristo suono, fu poi chiamata poter discrezionale: cosa pericolosa, ma inevitabile nell’applicazion delle leggi, e buone e cattive; e che i savi legislatori cercano, non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di limitare ad alcune determinate e meno essenziali circostanze, e di restringere anche in quelle più che possono”.

Ora, se c’è mai stato un posto al mondo in cui la discrezionalità ha regnato sovrana, quel posto si chiama Università, la nostra Università. Non era arbitrio, per carità, ma una discrezionalità molto ampia sì: ai commissari di concorso bastava dire, con qualche frase di circostanza, che il lavoro di un candidato era “originale” e questo veniva subito “messo in cattedra”. Se, invece, “non era originale”, il malcapitato era spacciato. L’Accademia poteva tutto, o quasi.

Non parlo per sentito dire, ma per esperienza diretta. Nei diversi concorsi ai quali ho partecipato, si sapeva sempre prima il vincitore. Lo sapevano tutti, tranne il sottoscritto, un po’ perché non ero dell’”ambiente” (per vivere, al mattino lavoravo in un ente pubblico), un po’ perché mi ostinavo a non crederci. Ricordo solo che spesso e volentieri mi “consigliavano” garbatamente di non presentarmi alle prove: “Hai fatto la domanda, ma sei sempre in tempo per ritirarla … vedrai che prima o poi verrà il tuo turno”. Avrei dovuto capire che il mio turno non sarebbe mai arrivato, ma, appassionato com’ero (e sono) dello studio, ancorché “sconsigliato”, cominciai a presentarmi a diversi concorsi, smettendo una buona volta di ritirare le domande.

Del resto, dopo alcuni articoli, nel 1990 (a mie spese, rectius della mia famiglia) avevo già pubblicato la prima monografia, che con mia grande soddisfazione andò esaurita in breve tempo, tanto che l’editore decise di farne una ristampa. Nell’”ambiente”, mi dissero subito che bisognava farne un’altra. Così feci. Poi ne pubblicai un’altra (1993) e un’altra ancora (2000), precedute e seguite da lavori minori, come articoli e voci di enciclopedie.

Non mi sono mai piaciuti i manichei, quindi non butterò via il bambino con l’acqua sporca: all’Università ho conosciuto maestri indimenticabili e “colleghi” di valore, poi diventati meritatamente ordinari. Devo dire, però, che, nella stragrande maggioranza dei concorsi ai quali tanto testardamente quanto ingenuamente ho partecipato, ho sempre raggiunto la stessa amara consapevolezza: quella di non concorrere contro giganti. Anzi.

Ma questo non significava niente, perché più scrivevo, più non vincevo. ”Perdevo” sempre, anche quando gli altri candidati potevano vantare solo un abbozzo di libro, di quelli presentati “dopo i depositi di legge”. Poi, nel 2000 la svolta: il dpr 117 di quell’anno imponeva di presentare ai concorsi “pubblicazioni diffuse nell’ambito della comunità scientifica”. In disparte l’involontaria comicità della formula, significava che per diventare professori occorreva aver pubblicato quelli che i comuni mortali chiamano “libri”. E io ne avevo già 4, quando gli altri candidati, ormai sempre più giovani di me, spesso non ne avevano neanche uno. Se non altro per la mia anzianità, che voleva dire più titoli, mi illudevo così di riuscire a ritagliarmi uno strapuntino accademico, dove continuare a tempo pieno i miei studi, senza limitarsi agli orari extra ufficio.

Macché. Le cose andarono peggio di prima. Continuai a “perdere”: anche con quelli che non avevano il libro; anche quando, dopo aver presentato ricorso, ebbi ragione dal Consiglio di Stato (allora era molto più difficile di oggi. Anzi è stata una sentenza-precedente, che ha posto le basi in favore di altri sfortunati colleghi); anche quando, dopo un concorso-odissea, era rimasto libero un posto, dato che la commissione decise di non ricoprirlo.

Alla fine, ho abbandonato l’idea (ma non l’ideale); sarebbe stato inutile continuare. Poi c’è stata la Riforma Gelmini e dal 2012 l’abilitazione scientifica nazionale, ora è a sportello. Intendiamoci bene: devo aver dato proprio un cattivo esempio, visto che da allora a oggi il contenzioso in questa materia non è solo aumentato ma addirittura esploso. Fioccano le denunce, ora giunte persino all'Anac di Cantone, che si è spinto sino ad affermare che la corruzione induce i giovani ad emigrare.  Siamo di fronte al fatto notorio e anche Cantone lo sa. Tutt’al più potrà “girare” i casi più gravi alla magistratura, magari suggerendo un programma di protezione per i” pentiti”, che ai miei tempi non c’era.

Per chi ricorda l’espressione “se non parleranno gli uomini parleranno le pietre”, non si può che invocare una politica che parli a riguardo, per dire e risolvere quello che ormai anche le mura (e le cattedre) ben conoscono.

Non si può che prendere atto, purtroppo, che passano i governi, si fanno le riforme, ma non si trova mai la formula giusta per selezionare gli aspiranti accademici.

Sciascia soleva ripetere che tutti i nodi arrivano al pettine, quando c’è il pettine. Che dire!?! Forse, come dicono a Roma, finora sono stati solo a “pettinare le bambole”.

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