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Venerdì, 19 Apr 2024

“Approvate il testo della legge concernente «disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione» approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?”

Questo sarà il quesito referendario sottoposto ai cittadini il prossimo 4 dicembre, in occasione del referendum costituzionale.

Un quesito che, per come è posto, sembra destinato a far presa facilmente sulla fascia di elettorato, ahinoi, sempre più numerosa, qualunquista e disinformata.

Un quesito che appare ben studiato ab origine, fin dalla presentazione della riforma Boschi che, appunto, è stata pubblicata con una denominazione fuorviante e accattivante per un paese dove, ormai, l'antipolitica la fa da padrona.

E sì, perché l'articolo 16, della legge 352 del 25 maggio del 1970 che regola i referendum, prevede che sulla scheda vengano elencati gli articoli della Costituzione che sono stati modificati, oppure il nome della legge. Si è scelta quest'ultima opzione, per non elencare i 47 articoli della Costituzione modificati.

Insomma, per evitare un quesito così fuorviante per onestà intellettuale e rispetto verso gli elettori, la (contro)riforma Boschi avrebbe dovuto assumere piuttosto la denominazione «disposizioni per la trasformazione della forma di governo da repubblica parlamentare incentrata sul bicameralismo perfetto a premierato forte» o meglio ancora «da repubblica democratica a oligarchia».

Sia come sia, certamente il tema dei costi della politica, derivanti dal numero degli eletti, facilmente fa presa su un popolo che non si ferma a riflettere e a guardare cosa accade nei paesi in cui il numero degli eletti nelle istituzioni parlamentari è esiguo. Un esempio per tutti, gli Usa, dove pure vige il bicameralismo, il Senato è composto da 100 membri mentre la Camera dei rappresentanti da 435, per una popolazione che, secondo l'ultimo censimento del 2014, ammontava a 318,9 milioni di abitanti. Appena 535 persone decidono i destini di una popolazione così vasta e di variegate culture. Politici che arrivano ad occupare gli scranni parlamentari dopo aspre lotte per l'investitura e campagne elettorali costosissime, che possono essere finanziate senza limiti dai potenti della nazione. Con quei numeri e quei meccanismi, gli eletti non andranno di certo a rappresentare gli interessi del popolo americano, delle persone comuni, ma quelli delle lobby che li hanno fatti eleggere.

Ebbene, questo è il sistema che stiamo per importare nel nostro paese, questo sarà il profilo del prossimo Parlamento, con l'aggravante, nel nostro caso, che con la legge elettorale denominata Italicum gli eletti saranno per lo più i nominati del premier/segretario del partito vincitore delle elezioni.

E, comunque, negli Usa, oltre al Congresso, vi sono poi i Parlamenti dei 51 Stati federali, che sono tutti, ad eccezione del Nebraska, bicamerali. A seguire, vi sono le Contee (un po' come le nostre Regioni), con altre assemblee elettive. Insomma, un numero non proprio irrilevante di eletti che vanno a bilanciare il Congresso, con i suoi 535 membri.

Stando così le cose, i costi della politica - inclusi quelli della corruzione, già oggi stimati in 60miliardi annui - riducendo il numero degli eletti, sono destinati a salire, specialmente con una riforma siffatta, dove il Senato e le assemblee regionali non conteranno più nulla.

Se proprio si volevano ridurre “i costi della politica” occorreva, semmai, dimezzare i corposi compensi degli eletti ed eliminare gli scandalosi vitalizi per gli stessi. Una riduzione che sarebbe stata salutare per far comprendere agli eletti le difficoltà in cui si imbatte ogni mese la maggioranza degli italiani, i cui redditi sono fra i più bassi d'Europa.

Ma il vero paradosso della vicenda referendaria è che, mentre il premier se ne va in giro a dire agli italiani che bisogna ridurre il numero dei parlamentari per risparmiare, il suo governo, pur di portare a casa la vittoria del SI’, si accinge a varare una legge di bilancio che, tra un provvedimento e l'altro, prevede una maggiore flessibilità dei conti pubblici, fino a portare il rapporto deficit/Pil al 2,4% (ma Renzi voleva arrivare addirittura al 2,6) - anziché, al 1,8% previsto per quest'anno - che corrisponde a 13,5-15 miliardi di maggiore spesa.

Il tutto ufficialmente per far (ri)partire una crescita economica che finora è mancata all'appello, nonostante le famose “riforme” del premier.

In realtà, si tratta di mance e mancette, che difficilmente risolveranno i problemi strutturali della nostra economia da tempo in declino, ma che, sicuramente, dovrebbero servire a convincere gli indecisi a votare SI’ al referendum.

Ricordate il bonus da 80 euro? Come è finita?

Se, come appare assai plausibile, al referendum vinceranno i No, il giorno dopo non ci sarà il cataclisma che artatamente si paventa per fare breccia negli elettori più disinformati.
 
Mentre è assai difficile che il premier, dopo aver detto che in caso di sconfitta non avrebbe esitato un attimo ad abbandonare la politica, mantenga la promessa.

Se, invece, lo facesse, lascerebbe comunque una pesante eredità agli italiani ovvero un deficit cresciuto non per i costi della politica (rectius della democrazia) ma per i costi delle politiche fallimentari del suo governo, che hanno portato il debito pubblico da 2107,2 miliardi (a tanto ammontava a fine febbraio 2014, quando Renzi entrò a Palazzo Chigi) agli odierni 2348,8 miliardi.
 
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