Un paio di pagine contenute nell’ultimo World Outlook del Fondo monetario internazionale (Fmi) ci consentono agevolmente di comprendere perché ormai l’automotive non sia più solo un problema economico (ammesso che sia stato solo questo in precedenza) ma una questione complessa che ha profonde ricadute.
La prima, evidente, è il declino di mercato dei produttori tradizionali. L’avvento dell’elettrico, cresciuti notevolmente, ha consentito alla Cina di aumentare le sue quote di valore di mercato, sia di produzione che esportazione, potendo Pechino sfruttare l’articolato (e sovvenzionato) sistema che di fatto ha trasformato la Cina nell’egemone nel settore dei veicoli elettrici.
Questa evidenza disegna una nuova geografia delle produzione che va a discapito delle zone dove tradizionalmente l’automotive è nato e si è sviluppato e si associa alle caratteristiche di questo settore che ancora oggi esibisce non solo una notevole capacità di generare valore aggiunto, in ragione della sua alta produttività, ma è profondamente diffuso a livello internazionale tramite complesse catene di valore, che possiamo intuire osservano le quote di valore aggiunto che arrivano dai diversi paesi esteri.
Il problema è questo: abbiamo un settore ancora appetitoso dal un punto di vista economico, che si sta allontanando dai luoghi tradizionali dove è stato concepito, minacciando di provocare diverse rovine, che le cronache ci ricordano ogni giorno. Per queste regioni è un problema soprattutto politico, come ci ricordano le cronache recenti arrivate dalla Germania, dove produttori storici lasciano trapelare di voler chiudere stabilimenti nel paese, cosa mai successa prima. La soluzione dei dazi, che Usa e Ue hanno dato alla produzione cinese è insieme un rimedio ineludibile e un veleno, visto l’alto livello di dipendenza che lega Usa e Ue alla Cina.
Questo problema ne porta con sé un altro: la questione climatica, che con una certa superficialità si pensa di poter risolvere comprando tutti auto elettriche e bannando il motore termico, ossia il cuore dell’industria automobilista tradizionale. Nessuno purtroppo calcola il costo ambientale dell’elettrico, ed è un peccato perché magari aiuterebbe a inquadrare meglio il problema.
La vulgata dell’elettrico, invece, finisce col favorire la Cina. I dazi, dulcis in fundo, scaricano questa contraddizione sul consumatore che, molto semplicemente, smette di comprare auto. E infatti le vendite stanno collassando un po’ ovunque. Finisce che si chiedono a gran voce incentivi, ma ormai gli spazi fiscali per queste richieste sono sempre più esigui.
Che fare quindi? Una scelta razionale sarebbe prendere atto che l’automotive è un settore che nei nostri paesi ha un futuro sempre più incerto, anche per gli andamenti demografici. L’Ue dovrebbe promuovere attivamente il trasporto pubblico di massa e accettare un graduale disimpegno dall’automotive di massa. Produrre treni e autobus piuttosto che automobili. E quindi proporre politiche che favoriscano sempre più la mobilità collettiva sfavorendo l’uso dell’automobile.
Questo sarebbe un rimedio efficace contro l’inquinamento, altro che auto elettrica. Il costo della congestione, che l’auto privata fa salire drasticamente, dovrebbe anche questo far parte dei conti di Bruxelles. Che invece si preoccupa dei dazi sulle auto cinesi. Necessari magari, ma non certo sufficienti.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”
Twitter @maitre_a_panZ