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Martedì, 16 Apr 2024

Ossigeno per linformazioneOggi ricorre il 41° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini e, per una singolare coincidenza, era anche la Giornata internazionale - proclamata dall’Onu - per la fine dei crimini contro i giornalisti.

Oggi, come 41 anni fa, chi cerca di fare seriamente informazione, di denunciare chi attenta alla democrazia o alle regole del vivere civile, rischia la vita.

La Federazione internazionale dei giornalisti (IFJ) ha dichiarato che nel 2016 sono già sessantasei i giornalisti uccisi, spesso in paesi con i quali l'Italia e l'Ue hanno, e continuano ad avere, forti accordi commerciali e di partenariato, come con l'Egitto.

Paesi con i quali vigono ricchi accordi internazionali, ai quali si erogano ingenti risorse, come i 6 miliardi che verranno dati alla Turchia per fermare i migranti, nonostante da luglio siano stati chiusi in quel paese ben 168 tra giornali e televisioni che si opponevano alla dittatura di fatto del governo Erdogan.

"Serve che le istituzioni dell'Unione Europea e i governi nazionali intervengano con decisione per porre fine ad una situazione di palese violazione dei diritti umani e civili – ha dichiarato in una nota la Federazione nazionale della stampa italiana, che aggiunge - Un paese che si professa democratico non può imporre il bavaglio all'informazione, cuore di ogni sistema politico che abbia al centro i cittadini''.

Secondo IFJ, 11 giornalisti sono stati uccisi in Afghanistan, 8 in Messico, 7 in Iraq, 5 in Siria come in Yemen, Pakistan, India e Guatemala, 3 in Brasile, 2 in Libia e altrettanti in Turchia, Somalia e Filippine, 1 in Guinea, Giordania, Sud Sudan e Ucraina.

In Italia, non si uccide più ma, come ha denunciato Ossigeno per l'informazione, nel circostanziato dossier Taci o ti querelo! per effetto delle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa, ogni anno vengono aperti contro i giornalisti ben 6.813 procedimenti (in media 567 al mese, 19 al giorno), in 155 subiscono una condanna penale, per un totale di 103 anni di carcere, ciò nonostante 9 processi su 10 finiscono senza condanne.

Sono 5.125 le querele infondate (quasi il 90% del totale), 911 le citazioni per risarcimento, 82 milioni di euro di richieste danni, 54 milioni di spese legali solo per il primo grado di giudizio (quasi sempre a carico del giornalista visto che, ormai, soltanto a una minoranza è garantita la tutela legale dagli editori). Mentre l'86% dei tentativi di mediazione fallisce.

Per essere prosciolti ci vogliono in media 2 anni e mezzo, 6 anni per la sentenza di primo grado (dati forniti per la prima volta dall’Ufficio Statistiche del Ministero della Giustizia).

Ma non basta, talvolta le minacce non passano dai tribunali, tant'è che 30 giornalisti vivono sotto scorta, 3.000 hanno denunciato minacce e 30.000 hanno subito pesanti intimidazioni (il 40% di questi ha ricevuto querele pretestuose).

Si tratta, in massima parte, di giornalisti che raccontano fatti rilevanti di pubblico interesse.

Dati più che allarmanti ove si consideri che essi sono la proiezione statistica di un campione di 43 tribunali su 139. Essi ci fanno comprendere quali siano gli effetti devastanti della legislazione italiana in materia di diffamazione a mezzo stampa. Una legislazione che le Camere non sembrano voler modificare se non in peggio. Un atteggiamento confermato anche dalla circostanza che le querele aumentano ogni anno dell'8%. In mancanza di interventi correttivi, dal 2017 in poi i procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa potrebbero diventare 7500 l’anno.

Nel biennio 2014-2015, soltanto l’8 per cento dei procedimenti penali definiti ha concluso l’iter con la condanna dell’imputato (5,8% in Tribunale e 1,6% in fase preliminare). Ciò sta a significare che molte accuse di diffamazione a mezzo stampa sono pretestuose, formulate strumentalmente per intimidire, piuttosto che per ragioni che hanno a che fare con la tutela della reputazione personale.

Per Ossigeno per l'informazione si tratta di veri e propri “abusi del diritto” che “fanno girare la macchina della giustizia a vuoto e la trasformano in uno strumento di intimidazione e ricatto, in un bavaglio per i giornali e i giornalisti. Moltissime querele dovrebbero perciò essere fermate sul nascere. E chi commette questi abusi dovrebbe essere scoraggiato con gli strumenti previsti dal diritto, applicando in modo sistematico le penalità già previste per punire le liti temerarie, contestando d’ufficio il reato di calunnia e introducendo nuove norme deterrenti, come già avviene in altri paesi. Si dovrebbe, infine, introdurre una norma che preveda, per la diffamazione, la condanna automatica del querelante alle spese e al risarcimento in caso di archiviazione”.

Nel 2015, una condanna su tre prevedeva una pena detentiva quasi mai al di sopra dell'anno di reclusione. Ossigeno ci ricorda che “Punire la diffamazione a mezzo stampa sul piano penale, e addirittura con una pena detentiva, produce - come sottolineano le massime istituzioni internazionali - un chilling effect, cioè un effetto raggelante sui giornalisti, sui giornali, sull’intero mondo dell’informazione. Il timore di un’incriminazione e l’eventualità, anche remota, di una condanna da scontare in carcere (o con le modalità alternative alla detenzione in una cella) inducono molti operatori dell’informazione a trattare soltanto notizie soft”.

L'associazione perciò chiede, in linea con la Corte di Giustizia europea, che “l’elemento della verità e della buona fede, come avviene in altri paesi, sia considerato un elemento giustificativo sufficiente nei processi per diffamazione a mezzo stampa; chiede sia abolita la pena detentiva e che l’intera materia sia regolamentata dal codice civile, con procedure di più alta garanzia per gli accusati”.

In Italia, un giornalista querelato per diffamazione rischia una pena detentiva che può arrivare a sei anni di reclusione. “Chi subisce una condanna per aver praticato la libertà di informazione, per avere esercitato un diritto universalmente riconosciuto subisce un trauma difficile da superare ed è indotto a evitare rischi analoghi, anche a costo di praticare l’auto-censura”.

E la cosa più grave è che, in molti casi, i condannati avevano anche scritto cose vere ma sono rimasti inascoltati da una giustizia a volte più attenta alla voce del potere che alla libertà di informazione.

C'è ancora molto cammino da fare per costruire una vera democrazia e una riforma costituzionale di stampo oligarchico di certo non ci garantirà il diritto all'informazione.

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