Combattere per combattere, di Iacopo Ricci e Marta Sicigliano - Edito da Hellnation Libri, marchio editoriale di Red Star Press - pp. 112, con illustrazione b/n - euro 13,00.
Recensione di Adriana Spera
Si fa un gran parlare di gender gap salariale con riferimento al mondo del lavoro o di gender gap stem per sottolineare quanto sia difficile per le donne affermarsi nel mondo scientifico, ma quasi mai si parla di gender gap nel mondo dello sport, dove non poche discipline sono state a lungo negate alle donne che tutt’oggi sono sotto pagate e relegate, quasi in tutti gli sport, nei ranghi del dilettantismo.
E dire che il Parlamento Europeo con una sua "Risoluzione", fin dal 5 giugno 2003, aveva chiesto alle Federazioni sportive nazionali e sollecitato gli Stati membri ad assicurare alle donne parità di accesso allo statuto di atleta di alto livello, garantendo gli stessi diritti, non solo in termini di reddito.
Un invito ribadito, in assenza di provvedimenti, nel corso di un Consiglio dell’Unione Europea dedicato ad “Istruzione, Gioventù, Cultura e Sport”, tenutosi a Bruxelles il 24 novembre 2023.
Invece, a tutt’oggi, dai dati Inps si evince che i professionisti nello sport sono circa 9.000, a fronte di circa 400.000 praticanti e quasi tutti concentrati nel mondo del calcio.
Dopo l’entrata in vigore della riforma prevista dal decreto legislativo 36/21 (governo Conte II), alle donne si è aperto il settore del professionismo, al momento tuttavia limitato al calcio di serie A, alla serie A1 del basket, al ciclismo, al golf e al pugilato. Ma non basta, permane una significativa disparità quanto a retribuzioni e diritti. Una disparità che si materializza anche sul fronte dei ruoli dirigenziali nelle federazioni, tant’è che di 48 federazioni sportive solo due sono presiedute da donne e non v’è mai stato un Presidente del Coni donna.
Tuttavia, la riforma del 2021 (nata sulla scia della legge di bilancio del 2020 del Conte I) - che ha visto un iter legislativo non poco ostracizzato dalle stesse federazioni, come dimostra la sua entrata in vigore “per fasi successive” anche dei decreti attuativi - specifica all’art. 38 che la nozione di lavoratore sportivo prescinde dal sesso e che, qualora una Federazione decida di qualificare una disciplina come professionistica, questa operi senza distinzione di genere.
Ciononostante, le differenze di reddito tra uomini e donne restano enormi e le risorse previste dal “Fondo per il professionismo femminile”, di cui all’art. 39 del d. lgs. 36/2021, risultano essere insufficienti, cosicché continua ad esservi un alto numero di dilettanti.
La boxe è tra le discipline sportive dove le donne hanno faticato non poco ad affermarsi, come ci ricorda la storia della boxe femminile narrata in un interessante libro appena uscito, Combattere per poter combattere di Iacopo Ricci e Marta Sicigliano.
Come ci ricordano gli autori, “La storia del pugilato femminile, seppur poco raccontata, è oramai pluricentenaria. Come tutte le cose poco narrate e anche, a volte, volutamente bistrattate, non si ha la certezza scientifica di come tutto ebbe inizio. Di certo si sa il periodo storico: età georgiana ”.
Parliamo di un’età ricca di fermenti sociali in Inghilterra, in particolare a Londra, “Una metropoli contraddittoria, dove i ricchi e i poveri vivono fianco a fianco e dove l’elegante e il brutale coesistono. Tra le principali forme di intrattenimento dell’epoca c’era sicuramente la boxe…E più il pugilato veniva condannato da moralisti, magistrati e predicatori e più le persone accorrevano a goderne….E la boxe, inoltre, non era solo roba per uomini. C’era un sottobosco della boxe londinese e inglese che prevedeva incontri simili alla bare-knukle (boxe a mani nude) a cui prendevano parte anche le donne. Si trattava di un fatto relativamente accettato e la pratica femminile di questa boxe delle origini non era vista come qualcosa di peggiore o di migliore rispetto al pugilato degli uomini, anche se non mancavano i problemi. Per prima cosa bisognava trovare un luogo dove combattere. A differenza dei pugili maschi che potevano combattere nelle arene ufficiali o negli anfiteatri, le donne dovevano sfruttare le location più disparate: taverne, fienili, campi o, banalmente, i vicoli dietro le bettole. Questo perché la boxe femminile non era ufficialmente regolamentata da alcuna autorità ed era spesso soggetta a procedimenti giudiziari o condanne morali…A differenza dei pugili maschi.. le pugili non avevano un codice universale...dovevano negoziare o concordare le proprie regole, che potevano variare da match a match, con le loro avversarie o i loro secondi, e, dopo gli incontri, non esisteva alcuna copertura sanitaria sulla quale contare”.
Gli incontri in cui quasi sempre si combatteva a mani nude, in topless per attirare più persone, servivano a risolvere dei contenziosi “un modo per affermare il rispetto di sé, per non essere vittime o essere considerate tali”. Ma non mancava neppure la voglia di competere in uno sport per vincere, affermarsi e guadagnare e ricevere cospicui regali dai fan. Insomma, usavano la boxe come un mezzo per affermarsi ed esprimersi, per potenziarsi.
“Il pugilato è stato per loro un mezzo per sfidare le norme e le aspettative della loro società, che spesso le limitava a causa del loro genere”.
Elisabeth Stokes, sposata Wilkinson, fu la prima grande pugilatrice, combatté negli anni ’20 del 1700, un’epoca in cui le donne erano viste unicamente come mogli e madri. Queste atlete dimostrarono che le donne possedevano forza fisica e coraggio tanto quanto gli uomini, affermarono la loro indipendenza scegliendo avversarie e avversari, regole d’ingaggio e premi in palio, a prescindere dal sesso e dalla classe sociale dell’avversaria/o.
Eppure, con il passare degli anni arriva la “normalizzazione” e a figure come Elisabeth si attribuiscono connotati negativi fino ad affermare addirittura che ella fu «uno dei motivi del fallimento morale del XVIII secolo». Sarà che i maschi inglesi, e non solo loro, all’affermarsi delle donne in alcuni settori, non solo sportivi, sentono in pericolo la loro egemonia.
Nell Saunders è invece la prima pugile a combattere, nel 1876, un match ufficiale in America; poi vennero le due Hattie, Steward e Leslie e, nel 1928, il primo arbitro donna, Belle Martell.
Un dato è certo, scrivono i nostri autori, “la società, da fine Ottocento, ha costantemente cercato di svilire la boxe femminile e di fare entrare le donne in questo mondo solo quando era necessario allo show business”.
Fatto sta che la boxe femminile venne pian piano sempre più oscurata e declassata nella prima metà del ‘900. Per vedere una donna retribuita sul ring, si è dovuto attendere il 1968 con l’arrivo delle ring girls con i loro cartelli indicanti il numero di round da disputare. Quasi delle cheerleader della boxe!
La conseguenza di questo clima fu che quasi ovunque alle donne venne vietato di disputare degli incontri. Nella “civile” Australia ciò si è protratto fino all’anno 2000.
Quasi tutti i paesi resero legale la boxe femminile professionistica negli anni novanta del Novecento, in alcuni addirittura la legalizzazione giunse alla vigilia delle Olimpiadi di Londra del 2012. Una battaglia che si è vinta grazie ad alcune pioniere, come Cathy “Cat” Davis, che nel 1977 fece causa alla NYSAC (New York State Athletic Commission) che, in quanto donna, non le voleva concedere la licenza per combattere sul ring. Cat vinse e riuscì a far cambiare la legge nello Stato di New York.
Va detto però che tutti i ricorsi esperiti precedentemente da pugilatrici, tutte di colore, come Jackie Tonawanda o Marian Trimiar detta Lady Tyger (in seguito divenuta la prima campionessa del mondo dei pesi leggeri), furono persi.
Se Lady Tyger va ricordata anche per le sue lotte per la parità salariale per le donne boxeur e migliori condizioni per tutti nel mondo del pugilato, Shirley Tucker, detta “Zebra Girl”, va ricordata perché fu una femminista ante litteram. Diceva sempre, «Non sono un crociato per i diritti delle donne, voglio solo essere qualcuno. Voglio dimostrare che le donne possono boxare e non devono rimanere in cucina».
Dagli anni ’80, e fino al nuovo millennio, sono emerse figure mitiche per la loro imbattibilità sul quadrato, come Lucia Frederica Rijker o AnnWolf (tre volte campionessa del mondo).
Ciononostante, alle donne per poter combattere restano da superare tanti ostacoli, soprattutto di natura culturale da cui non sfuggono neppure le figlie d’arte come Laila Alì, figlia di Muhammad, mito della boxe, che è stata fondamentale per la crescita del movimento pugilistico femminile, che annovera star che hanno superato persino i record maschili, come Cecilia Brækhus che è riuscita a difendere i propri titoli di campionessa del mondo per oltre 26 volte, superando il record di Joe Luis.
Quelle citate non sono che alcune delle tante atlete, le cui appassionanti vite si possono scoprire in questa interessante storia della boxe femminile scritta da Iacopo Ricci e Marta Sicigliano.
Per praticare la boxe, le donne hanno dovuto superare diversi ostacoli e resistenze, e molti ve ne sono ancora, perché simbolicamente è lo sport che più di tutti esprime la forza, che ancor si vuole monopolio maschile.
Adriana Spera