Per farsi un’idea più chiara di dove stiamo andando si può provare a sfogliare un interessante policy paper di Ocse (“Quantifying the Role of State Enterprises in Industrial Subsidies“), che ci aiuta a mettere a fuoco una tendenza emergente del nostro spirito del tempo: il peso crescente nella manifattura globale delle aziende a capitale pubblico.
Cosa significa questo in pratica? Molte cose. Dal punto di vista economico si osserva che queste aziende sono meno efficaci, sia dal punto di vista finanziario che produttivo. Dal punto di vista politico che aumenta il peso specifico dell’economia non di mercato, con tutto ciò che ne consegue. A cominciare proprio dallo “spiazzamento” che le aziende pubbliche generano verso quelle private.
Come si può osservare dal grafico sotto, nei paesi Ocse le aziende che nel capitale hanno partecipazioni superiori al 10% sono ancora relativamente poche. Ma, nel mondo fuori dall’Ocse, sono le grandi protagoniste dell’economia.
Tutti immaginano l’importanza che queste compagnie statali (oltre il 50% di capitale pubblico) hanno in Cina, dove in effetti pesano quasi il 40%, ma tendiamo a dimenticare che nei paesi del Golfo (Gulf Cooperation Council) sfiorano il 60%, e che in India viaggiano intorno al 30%. Si tratta insomma di un modello di governo degli affari economici che ha una notevole importanza in economie che si candidano a ogni pie’ sospinto a proporre un modello alternativo di gestione della globalizzazione. E di questo dovremmo tenere conto nelle nostre analisi.
Anche perché queste aziende vengono notevolmente aiutate dai loro governi, con sussidi di vario genere, a cominciare dai prestiti, fino alle agevolazioni fiscali, e questo le mette nelle condizioni di competere assai più efficacemente con i concorrenti malgrado non siano dei modelli di efficienza industriale o di capacità produttiva.
E in fondo per loro, anzi per i governi che le sponsorizzano, la produttività non è un problema, come non lo sono strettamente i profitti che queste imprese generano, solitamente meno soddisfacenti dell’industria privata.
Perché lo scopo di queste aziende non è né il profitto né la produttività. Lo scopo è favorire il controllo dello stato dei settori di riferimento per determinare la politica industriale secondo i piani del governo, all’interno e soprattutto all’esterno. In pratica il sogno proibito di molti nostri governanti occidentali. Motivo per il quale questa tendenza crescente deve essere osservata. Potrebbe diventare di moda anche da noi.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”
Twitter @maitre_a_panZ