La catastrofe della politica nell’Italia contemporanea
La catastrofe della politica nell’Italia contemporanea di Giovanni Belardelli, editore Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014, pp.97, euro 12.
La catastrofe della politica nell’Italia contemporanea di Giovanni Belardelli, editore Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014, pp.97, euro 12.
Al giorno d’oggi, ancorché in varie forme e con diversa intensità, siamo quasi tutti utilizzatori della Rete, ma raramente ci fermiamo a riflettere sulla sua complessa natura.
Gli antichi ci riguardano di Luciano Canfora, Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 104, euro 10.
Teoria del camminare di Honoré de Balzac, Elliot edizioni, Roma, 2014, pp.89, euro 9.
Il popolo e gli dei. Così la grande crisi ha separato gli italiani, di Giuseppe De Rita –Antonio Galdo, editore Laterza, Roma-Bari, 2014, pp.104, euro 14.
Il giuramento di Ippocrate a cura di Giorgio Cosmacini, Edizioni Albo Versorio, Milano, 2013, pp. 46, euro 4,90.
Post-Sinistra. Cosa resta della politica in un mondo globalizzato di Marco Revelli, Editori Laterza-La Repubblica, Roma Bari, 2014, pp.136, euro 5,90.
Roma senza il Papa. La repubblica romana del 1849 di Giuseppe Monsagrati, Laterza, Bari, 2014, pp.252, euro 20.
Le nuove paure di Marc Augé, editore Bollati Boringhieri, Milano, 2013, pp.82, euro 9.
Recensione di Roberto Tomei
Nate con l’uomo, le paure sono qualcosa di così immateriale e impenetrabile che non deve essere stato mai facile farne oggetto di riflessione. Con questo acuto e brillante libretto, ci prova ora Marc Augé, fine antropologo della tarda modernità, noto al grande pubblico soprattutto per aver scandagliato il ruolo che ai giorni nostri svolgono quelli che lui stesso ha ribattezzato” nonluoghi”, come supermercati, aeroporti e stazioni, dove i contemporanei trascorrono una parte sempre più consistente della loro vita.
E’ chiaro che le paure di oggi sono diverse da quelle di ieri e che il termine “paura” cambia a seconda del suo oggetto: paura della guerra, degli stranieri, delle polveri sottili, del futuro, ecc. Così come è altrettanto evidente che queste paure sono più remote di altre, come ad esempio l’angoscia che si prova per la perdita del posto di lavoro, che è decisamente molto più immediata.
Il dato saliente rispetto al passato, secondo Augé, è rappresentato dal fatto che ai giorni nostri le paure sono “oggetto di un intenso sfruttamento mediatico”, con un inedito “effetto di accumulo che trascende lo spazio e il tempo”, che rischia di creare interdipendenze tra eventi senza effettiva connessione, contigui solo nell’incalzare delle immagini e delle notizie veicolate dai media.
Raccogliendo l’esortazione di Giovanni Paolo II a non avere paura, Augé chiude la sua riflessione invitandoci ad “opporci” a quella che egli considera una sorta di nuova “colonizzazione”. Questi gli antidoti: “la curiosità, i progressi della conoscenza, qualche slancio di fraternità, alcuni tentativi di riavvicinamento e, nel complesso, la consapevolezza ancora incerta di un divenire comune- tutti segni che sarebbe irragionevole e persino criminale decidere di trascurare o ignorare”.
Per dar vita a un’opposizione che abbia serie chance di vittoria, occorre però essere in tanti, sicché i più “sensibili e consapevoli” sono chiamati a svolgere un’intensa azione volta a sensibilizzare le coscienze. Ma questa è un’opinione mia.
Funzionarismo di Teodoro Klitsche de la Grange, editore Liberlibri, Macerata, 2013, pp. 151, euro 15
Recensione di Roberto Tomei
Giurista e politologo, direttore del trimestrale Behemoth, l’autore ha scritto questo libro nella convinzione che il termine “funzionarismo” esistesse nei dizionari, scoprendo poi che era assente persino nelle più famose enciclopedie.
Egli ci mostra così che vi fu un tempo nel quale, con diversi significati, tale termine era presente in diverse discipline e nelle opere di studiosi di prestigio e politici di rango, come Salandra, Fortunato, Gramsci e Sturzo .
Poi, improvvisamente, la parola viene ”bandita”:perché, tradizionalmente, il potere tende a occultarsi o perché, cadute, dopo il “secolo breve”, le ideologie che pretendevano di cambiare il mondo una volta per tutte (nazismo e comunismo), si rischiava di conservare soltanto quel che esse celavano, ossia la realtà del potere burocratico, certamente più prosaica delle rappresentazioni esaltanti dell’”uomo nuovo” o della “razza eletta”.
Sconfitte queste ideologie, l’autore avverte che la marcia trionfale della burocrazia è comunque continuata, visto che “non solo dottrine e ideologie ma anche guerre e crisi economiche le hanno giovato”.
Connotato principale del funzionarismo è quello di essere una deviazione della burocrazia. Questa che si spinge fino a pensare, come sottolineava Max Weber, di poter sostituire la politica, laddove la differenza tra capo e funzionario, fondata sulla diversa responsabilità dell’uno e dell’altro, non potrebbe essere più evidente: il funzionario non può volere per il popolo,che è la principale funzione del politico, ma deve limitarsi ad applicare i precetti deliberati dai politici, onde il suo potere è, per sua natura, limitato.
L’autore è convinto, stante la burocratizzazione inarrestabile delle nostre società, che l’alternativa non possa essere tra potere burocratico “sì o no”, ma che occorra seriamente pensare quali siano limiti e controlli per contenerlo e “tenerlo al guinzaglio”.
Ci lascia, infine, con l’inquietante interrogativo se in una società che ha “perso l’anima” la burocrazia non sia una componente essenziale del processo di decadenza.
Segreti e no di Claudio Magris, editore Bompiani, Milano, 2014, pp.58, euro 7
Recensione di Roberto Tomei
Trent’anni fa, avendo deciso di scrivere sui profili giuridici del segreto statistico, argomento negletto tra i giuristi, mi sembrò giusto approfondire il tema, andando a scandagliarne i diversi profili.
Quello per “il segreto” è, dunque, un interesse, diciamo così, per me risalente e che coltivo da tempo.
Perciò, quando, qualche giorno fa, in libreria ho trovato il libretto di Magris, uno dei miei autori preferiti, che trattava del segreto, non ho saputo resistere alla tentazione di sapere che cosa ne avesse detto.
Quello del Maestro triestino non è un libro sistematico, ma è come se lo fosse e i capitoli in cui si articola ben potrebbero avere titoli tipici dei testi giuridici, ma scevri della “pesantezza” propria di questi.
Partito da ricordi della sua adolescenza, l’autore ci spiega l’importanza del segreto per il potere (gli arcana imperii), passando poi a illustrarne la rilevanza, soprattutto ai giorni nostri, per la difesa della vita privata, convincendoci infine sul fatto che il segreto meglio custodito è stato sinora quello confessionale.
Naturalmente, tanti sono gli autori della letteratura richiamati dal Nostro: da Torquato Accetto a Norman Manea, da Javier Marias a Isaac B. Singer e a molti altri.
Brevi ma intense le pagine dedicate ai Misteri Eleusini e a quelli Orfici, che non si potevano non trattare, dato che il segreto ha sempre avuto a che fare con una qualche interdizione sacrale. Simpatico l’epilogo, che riporta la storiella, tratta da Le Maldobrie di Carpinteri e Faraguna, del messaggio segreto che un pescivendolo triestino deve recapitare a una spia asburgica.
La storia della mafia di Leonardo Sciascia, editore Barion, Palermo, 2013, pp.67, euro 8
Recensione di Roberto Tomei
Sciascia è tra i miei autori preferiti e ho anche avuto la fortuna di incontrarlo e parlarci in una libreria, chiusa ormai da tempo, di via della Vite, a Roma. Una insperata, lunga chiacchierata, mentre “divoravamo”- lui più di me- numerose sigarette. Quasi due ore trascorse a ripercorrere “cose di Sicilia”, terra della quale mi ero innamorato grazie a un mio compagno di collegio nativo di Ravanusa, cittadina della provincia di Agrigento.
Dalla scomparsa di Sciascia è passato quasi un quarto di secolo, ma della sua opera tanto sono appassionato che, quando mi capita di imbattermi in qualche suo lavoro che mi è sfuggito, non esito ad acquistarlo per andare poi a leggerlo, con precedenza assoluta rispetto a ogni altro libro che ho per le mani.
Quando, qualche giorno fa, ho trovato questo volumetto, di cui ignoravo l’esistenza, un’ora dopo l’acquisto già l’avevo finito.
Sciascia non si sentiva un “mafiologo” e non amava i professionisti dell’antimafia, ma, essendo nato e vissuto in Sicilia ed essendo dotato di un non comune senso di osservazione, si applicò a cercare di comprendere il fenomeno, dedicandovi libri memorabili.
Questa storia della mafia, ancorché stringata, oltre a spiegare esaustivamente il fenomeno mafioso, ne contiene perfino una definizione: “un’associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato”.
Il volume contiene altri due contributi, uno di Giancarlo Macaluso e un altro di Salvatore Ferlita. Nel primo è riportata un’altra definizione della mafia, quella fornita da un temuto uomo d’onore, che brilla per originalità, ma non la riporto, perché spero di incuriosirvi, spingendovi così ad acquistare l’interessante volumetto.
Il Principe di Niccolò Machiavelli, editore Donzelli, Roma, 2013, pp. CXXII-350, euro 30
Recensione di Roberto Tomei
Come tutti i classici, Il Principe è una lettura “doverosa”, che non può mancare nella biblioteca degli uomini di cultura, tanto più se italiani.
E’ Natale. Si può regalare e sarà un dono gradito. Ma si può anche acquistare per leggerlo o rileggerlo. Si tratta della volta buona, perché l’editore, Carmine Donzelli, ne ha curato anche la “traduzione” a fronte in italiano moderno, impresa compiuta alcuni anni fa solo da Piero Melograni.
Opera meritoria, perché la lingua del Fiorentino non è semplice, sicché talora finisce per allontanare il lettore, fermo restando che è sempre bene dare uno sguardo anche all’originale, per le sue straordinarie suggestioni, assolutamente inimitabili.
Basterebbe solo la fatica della “traduzione”, che speriamo sia la prima di una serie, per indurre a recarsi in libreria e accaparrarsi il prezioso volume, ma questo si segnala altresì per la vasta e dotta introduzione di Gabriele Pedullà, utilissima per comprendere Machiavelli e il suo tempo.
Di contro alla tradizionale lettura “cinica “dell’opera, il lettore potrà fare alcune scoperte: per esempio, che il principe deve essere leale e che deve cercare di reggersi sul consenso. Ma ci sono diversi altri aspetti del pensiero del segretario fiorentino che meritano di essere ulteriormente approfonditi, accantonando una volta per tutte falsi luoghi comuni.
Com’è noto, proprio nel dicembre del 1513 Machiavelli annunciava a Francesco Vettori la nascita del Principe. Sono passati cinquecento anni, ma a leggerlo francamente non li dimostra.
Indagini statistiche sull’efficacia della preghiera di Francis Galton, editore Il melangolo, Genova, 2013, pp. 67, euro 7
Recensione di Roberto Tomei
Confesso di aver acquistato questo simpatico libretto perché attratto dal titolo, che combina insieme cose che mi sembravano così lontane tra loro da farmi ritenere - evidentemente, a torto - che tra esse non vi potessero essere rapporti di sorta.
Francis Galton (1822-1911) è stato un intellettuale prolifico, avendo scritto più di 340 tra articoli e saggi, e un pensatore polivalente, essendosi applicato a problematiche afferenti a discipline diverse: dalla geografia alla psicometria, dall’eugenetica alla statistica, ecc.
In quest’ultimo campo del sapere, in particolare, scopre il concetto, oggi centrale, di correlazione e valorizza l’uso del questionario come strumento di indagine conoscitiva, ma a lui si devono anche altri concetti, come quelli di deviazione standard e di analisi della regressione.
Nella seconda metà dell’Ottocento, all’epoca in cui Galton scrisse il suo libro (si tratta, invero, di un articolo), che risale precisamente al 1872, c’era un gran fervore di studi sulla questione dell’efficacia della preghiera, evidentemente presa da tutti molto sul serio.
Assodata per i credenti, l’efficacia della preghiera venne da Galton sottoposta a verifica empirica, facendo ricorso a un particolare protocollo di analisi, che in qualche modo anticipa la procedura del doppio cieco.
Ciò che stupisce non poco è che l’interesse per una questione come quella dell’efficacia della preghiera non è stato una curiosità circoscritta all’Inghilterra vittoriana, visto che – come do viziosamente ci avverte Romolo Giovanni Capuano nella sua bella introduzione – a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso fino a oggi,” molti scienziati di tutto il mondo, seri e riveriti, hanno dedicato tempo, energie e denaro-a volte, molto denaro- a tentare di far luce, una volta per tutte, sugli interrogativi che già stimolavano le menti di Tyndall e Galton”.
Il dato certo è che tutti questi studi non avrebbero fatto altro che confermare i risultati delle ricerche di Galton, cioè che le preghiere non servono. Gli aderenti alle diverse religioni sono, dunque, avvertiti.
Poi, com’è naturale, ognuno si regola come crede.
Basta piangere! di Aldo Cazzullo, editore Mondadori, Milano, 2013, pp.137, euro 14,90
Recensione di Roberto Tomei
Cazzullo è del ’66, io sono del’54. Ricordo, dunque, più cose di lui, ma per la gran parte ricordiamo le stesse cose.
Allora, anche se a diverse latitudini - lui nelle Langhe, io in Ciociaria - l’Italia contadina era abbastanza uguale. Abbiamo assistito a varie trasformazioni, quasi tutte di segno positivo. Magari, per dirla con Pasolini, non sempre è stato un progresso, più spesso uno sviluppo. Però un avanzamento c’è stato, talvolta è stato addirittura repentino.
Di tutte queste trasformazioni, che Cazzullo elenca con precisione e tratteggia con eleganza, quella che ricordo con più piacere è rappresentata dal cosiddetto “ascensore sociale”, vale a dire la certezza che tutti ci accompagnava di un domani migliore rispetto a quello dei nostri padri, per non parlare poi rispetto a quello dei nonni. Sacrificandosi il necessario, naturalmente. E visto che l’ascensore funzionava, l’etica del sacrificio era accolta senza indugio
C’era, come c’è ancora, la diseguaglianza dei punti di partenza, però le chance di superarla erano reali e i risultati si potevano toccare con mano. Forse, anzi senza forse, il punto dolente del discorso è tutto qui. Nel fatto, cioè, che l’ascensore sociale non c’è più.
Diversi anni fa, ricordo che Giuliano Amato consigliò ai giovani di emigrare e fu ricoperto di critiche, se non di insulti.
Oggi i giovani vanno via in silenzio, a vagonate, e nessuno ci fa più caso. Ci si meraviglia anzi del contrario, del fatto cioè che ci sia chi riesca a trovare lavoro nel nostro ( non dico “questo”, per non usare un termine spregiativo) paese.
Di piangere, dunque, questi giovani “bamboccioni”,” choosy”, “sfigati”, come li apostrofano i governanti di turno, ne hanno tutte le ragioni.
Su una cosa, certamente, è difficile dar torto a Cazzullo, cioè che a piangere e basta non si risolve granché e che occorre in qualche modo ritrovare la fiducia nel futuro.
Magari sarebbe il caso che i politici, non soltanto con le opere ma anche con l’esempio, ci aiutassero in questa non facile ricerca.
L’utilità dell’inutile. Manifesto. Con un saggio di Abrahm Flexner di Nuccio Ordine, editore Bompiani, Milano, pp.262, euro 9
Recensione di Roberto Tomei
Con un paradosso, che ritiene solo apparente, un mio amico sostiene che il buon lettore sa quali sono i libri che non deve leggere. Forse così è troppo, però è certo che, mentre ci sono libri che non riescono proprio a destare il benché minimo interesse, ce ne sono altri irresistibilmente attraenti.
Certo bisogna indovinare il titolo, che per il libro che qui si presenta è proprio azzeccato, ma soprattutto occorre centrare l’argomento.
Per uno come me, cresciuto a latino e greco, storia e filosofia, Nuccio Ordine non poteva fare di meglio. Ormai da svariati anni, quasi da ogni parte si leva il diuturno e sempre rinnovato attacco al sapere senza ricadute pratiche, quello che nella communis opinio non porta a nessun risultato concreto, quindi non serve a niente.
Finalmente c’è uno che non ne può più e passa al contrattacco, dimostrando una volta per tutte che è vero proprio l’esatto contrario.
Nuccio Ordine difende l’utilità dell’inutile appoggiandosi a un’ampia raccolta di testi di autori antichi e moderni, dandoci notizia che Leopardi aveva addirittura progettato una” Enciclopedia delle cose inutili”.
Il senso di questa raccolta è esemplarmente chiarito dall’autore là dove dice che “le pagine che seguono non hanno alcuna pretesa di formare un testo organico. Riflettono la frammentarietà che le ha ispirate. Perciò anche il sottotitolo- Manifesto- potrebbe sembrare sproporzionato e ambizioso se non fosse giustificato dallo spirito militante che ha costantemente animato questo mio lavoro. Ho voluto solo raccogliere, all’interno di un contenitore aperto, citazioni e pensieri collezionati in tanti anni di insegnamento e di ricerca”.
Non è vero, poi, che il sapere inutile sia privo di ricadute sul progresso, meglio sullo sviluppo, della civiltà, come ben spiega Flexner nel saggio che completa il volume, citando due casi esemplari: Marconi non avrebbe potuto inventare la radio senza le equazioni teoriche di Maxwell relative al campo elettromagnetico; senza gli esperimenti di Ehrlich che si divertiva a colorare i batteri mai sarebbe potuta nascere la batteriologia. Sono solo due esempi, ma altri se ne potrebbero aggiungere.
Per me, tutto quello che dice Ordine è soltanto una conferma di quello che ho sempre pensato. Spero solo che riesca a convincere coloro (sempre troppi) che non la pensano come noi.
Pilato e Gesù di Giorgio Agamben, edizioni Nottetempo, Roma, 2013, pp.64, euro 6
Recensione di Roberto Tomei
Se non altro perche nati e cresciuti in famiglie di religione cattolica, tutti sappiamo chi è Ponzio Pilato, figura storica di notevole importanza nel racconto degli evangelisti, e non solo, che nell’immaginario collettivo diventa l’emblema dell’ignavo, ossia di chi, chiamato a decidere, sceglie di non prendere posizione, evitando così di assumere dirette responsabilità. Tanto ignavo che, secondo una certa interpretazione, sarebbe lui e non Celestino V “colui che fece per viltade il gran rifiuto”.
E’ a questa figura storica, indissolubilmente legata a quella di Gesù, che Agamben dedica la sua attenzione, sottolineando, tra l’altro come , accanto alla leggenda che tutti conosciamo, ce n’è una , cosiddetta “bianca”, che lo presenta come un segreto campione del cristianesimo contro gli ebrei e i pagani, con la chiara intenzione di attribuire la responsabilità della crocifissione esclusivamente agli ebrei. Una linea interpretativa, questa, che spiega come Pilato finisca con l’essere santificato dalla Chiesa etiopica e sua moglie (Procla) festeggiata nella Chiesa greca il 26 ottobre.
Il processo, che vede protagonisti Gesù e Pilato, non è certamente un processo come tanti altri, perché, come sottolineato da Spengler, “due mondi stanno immediatamente e inconciliabilmente di fronte: quello dei fatti e quello della verità, e con tanta spaventosa chiarezza come mai altrove nella storia del mondo”.
Se è vero, come scritto da Satta, che il processo è un mistero, quello celebrato da Pilato lo è più di ogni altro. In discussione non è tanto la competenza del procuratore romano a giudicare quanto la regolarità del giudizio, di cui Agamben esamina tutte e sette le fasi in cui si articola, ora fuori ora dentro il pretorio, lungo un arco temporale di ben cinque ore.
Il canone ermeneutico seguito dall’autore è “che solo in quanto personaggio storico Pilato svolge la sua funzione teologica e, viceversa, che egli è un personaggio storico solo in quanto svolge una funzione teologica”.
Secondo Agamben, in ogni caso, non c’è stato alcun giudizio: “né il giudizio né la salvezza hanno luogo,in quanto finiscono in un comune, indeciso e indecidibile non liquet”, conclusione che, com’è noto, è oggi preclusa dal nostro ordinamento.
Una politica senza religione di Giovanni De Luna, editore Einaudi, Milano, 2013, pp.137, euro 10
Recensione di Roberto Tomei
Come tutti ricorderanno, in occasione dei 150 anni dell’unificazione, quasi tutte le istituzioni si sono prodigate, ciascuna a suo modo, per celebrare l’evento. Si trattava, infatti, di un’occasione ghiotta per sottolineare e rinverdire simboli e memorie comuni, il “collante” senza il quale non c’è nazione.
Questa, rileva De Luna, è una costruzione concettuale e lo stato ha continuamente bisogno di strumenti e metodi autocelebrativi per riempirla di significato. Entra qui in gioco il concetto di “religione civile”, da intendere come un principio unificatore (religione, secondo un’etimologia, è un qualcosa che lega) dei singoli, che costruisce uno spazio pubblico di appartenenza, che necessariamente implica sempre un certo rapporto con il passato. Altrimenti detto, religione civile è “l’insieme dei valori e dei principi che fondano lo spazio pubblico della cittadinanza”.
Niente, dunque, che possa far pensare alla sacralizzazione della politica.
Ora, nel corso della nostra storia nazionale, non si può dire che le classi dirigenti che si sono avvicendate al potere - nell’Italia liberale, durante il Ventennio, lungo tutto l’arco della cosiddetta Prima Repubblica - siano riuscite a costruire una, non diciamo forte, ma almeno definita, identità nazionale.
In questi ultimi anni, poi, non solo non sono stati fatti significativi passi avanti in tale direzione, ma sembra che l’unica religione condivisa sia ormai quella dei “consumi”. Ma si tratta, più che altro, di una sensazione/aspirazione: non essendoci stato nessun nuovo miracolo italiano, è impossibile “sentirsi tutti figli dello stesso benessere”.
Secondo De Luna, è ora che la politica si svegli, smettendola di limitarsi all’amministrazione tecnica dell’esistente.
In caso contrario, l’Italia corre il rischio di soccombere.
Perché la filosofia è necessaria di Jean François Lyotard, Raffaello Cortina editore, Milano, 2013, pp.77, euro 9,50
Recensione di Roberto Tomei
Lyotard, noto al grande pubblico per La condizione postmoderna, vero e proprio punto di riferimento della contemporaneità, è autore di oltre quaranta testi, tra i quali sono comprese le trascrizioni di molte sue celebri conferenze, come sono appunto quelle che qui si segnalano all’attenzione dei lettori.
Preceduto da una presentazione di Corinne Enaudeau, il testo pubblicato dall’editore italiano, volutamente senza note per mantenere il carattere orale di queste lezioni, riproduce la seconda stesura che ha rappresentato la traccia per le conferenze tenute dal filosofo francese nel 1964 alla Sorbona per gli studenti di Propedeutica filosofica.
Quando ero al liceo, il nostro professore di filosofia soleva ripeterci che ogni uomo è filosofo, anche se non se ne rende conto.
In fondo, è anche l’opinione di Lyotard, il quale sostiene che si filosofa per il semplice motivo che non vi si può sfuggire, magari correndo in certi casi il rischio di “irritare tutti”.
In queste lezioni, l’analisi della questione del “perché filosofare” si sviluppa partendo dal desiderio di interrogarsi sull’unità che si è perduta “nel dispiegamento di una storia in cui la connessione tra la realtà e il senso sfugge sempre e sempre si cerca per poi perdersi di nuovo”.
Al filosofo spetta, dunque, di “attestare un senso che è già là, un senso lacunoso che rende il suo discorso incompiuto e, con ciò, vero”.
E’ un discorso in cui si ritorna su ciò che si è pensato, che viene disfatto per poi ricominciare, “ fornendo la prova che la vera unità dell’opera è il desiderio derivante dalla perdita dell’unità, e non dal compiacimento nel sistema costituito, nell’unità ritrovata”.
Se questo è l’ordine della trattazione, la prima conferenza è dedicata, in particolare, al desiderio, ed eredita da Freud, attraverso Lacan, l’idea che ogni relazione alla presenza si dà su uno sfondo di assenza.
La seconda, invece, connette tra loro desiderio, parola e azione, sviluppando l’analisi della perdita dell’unità e la sua conservazione nella storia dello sforzo filosofico.
Nella terza, poi, si manifesta, sulla scia di Husserl e Merleau-Ponty, la convinzione che è il filosofo a portare l’esperienza muta all’espressione del suo proprio senso. Nella quarta, infine, dedicata all’azione, si spiega, in accordo con Marx, che il filosofo interpreta il mondo al fine di aiutare a trasformarlo.
Impossibile, dunque, per l’uomo, la scelta di rifugiarsi nella comoda quanto sterile condizione di “bruto”.
Non c’è libertà senza legalità di Piero Calamandrei, editore Laterza, Bari,2013, pp.65, euro 12.
Recensione di Roberto Tomei
Dopo la pubblicazione nel 2007 della conferenza Fede nel diritto, l’editore Laterza ha dato ora alle stampe queste altre pagine, che qui si presentano, anch’esse emerse dallo scavo tra gli inediti di Piero Calamandrei, giurista, scrittore e uomo politico fiorentino, che fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione.
Intitolato dall’autore Libertà e legalità e databile al 1944, vale a dire in quella fase in cui andava ponendo le premesse della sua posizione alla Costituente, il saggio scandaglia le interrelazioni esistenti tra questi due concetti chiave di ogni ordinamento, che vengono approfonditi alla luce dell’esperienza liberale e, poi, di quella fascista.
Come periodo paradigmatico dello sgretolamento dell’autorità della legge, proprio il ventennio fascista viene ampiamente analizzato da Calamandrei nella seconda parte del suo scritto, significativamente intitolato “il regime dell’illegalità” avendo tale regime lavorato per vent’anni “a distruggere negli italiani il senso della legalità” da intendersi come “coscienza morale della necessità di obbedire alle leggi, qualunque esse siano”
E’ nella prima parte del suo breve scritto, invece, dove discute la dialettica libertà/legalità, che l’illustre giurista precisa l’importanza della seconda rispetto alla prima, affermando che “colla legalità non vi è ancora libertà; ma senza legalità libertà non può esserci” e che “la legalità è condizione di libertà perché solo la legalità assicura, nel modo meno imperfetto possibile, quella certezza del diritto senza la quale praticamente non può sussistere libertà politica”.
Libertà, legalità e certezza del diritto sono oggi concetti non meno dibattuti di quanto avveniva settanta anni fa, sicché la lezione di Calamandrei ci appare assolutamente attuale e da rimeditare.
Finale di partito di Marco Revelli, editore Einaudi, Milano, 2013, pp. 137, euro 10.
Recensione di Roberto Tomei
Per chi aspiri a comprendere il proprio tempo, non c’è niente di peggio che vivere in una fase di transizione epocale, dato che, quando salta il paradigma entro il quale si cresce, non è facile raccapezzarsi, capire dove si va e riuscire a orientarsi.
Sono postumo di me stesso. Potere, Vaticano, donne, inferno e paradiso negli aforismi di Giulio Andreotti, a cura di Massimo Franco, Editore Mondadori, Milano, 2013, pp. 110, euro 10.
Recensione di Roberto Tomei
Ormai fa caldo e mi sembra opportuno segnalare un libro per le vacanze, da sano relax, buono sia per il mare che per la montagna. Di quelli, insomma, che si possono tranquillamente lasciare e riprendere a piacimento, senza conseguenze di sorta per il lettore.
E’ questa, infatti, la caratteristica tipica di tutti i libri di aforismi, espressione suprema del pensiero breve ma fulminante. Quello che si segnala è il libro degli aforismi di Giulio Andreotti, il politico che più di ogni altro è stato l’emblema della Prima Repubblica. Il curatore, Massimo Franco, notista politico e inviato del Corriere della sera, li ha raccolti suddividendoli per gruppi tematici. Alcuni di essi sono talmente noti da essere ormai entrati nell’uso comune, essendosi quasi trasformati in proverbi. Pensiamo, ad es., al famoso “il potere logora chi non ce l’ha”. Altri non sono così noti, ma risultano comunque non meno brillanti ed efficaci. Tra questi, quello che mi ha colpito di più testualmente recita: “il potere è non avere un capufficio”.
Se Orazio predicava il culto dell’aurea mediocritas, Andreotti si può considerare l’alfiere dell’aurea medietas, convinto com’è che “siamo tutti medi peccatori”, compreso lui, che si definisce di statura media, però con la coscienza “di non vivere tra giganti”. Sempre in questa medietas rientra la scelta di non dire bugie, ma soltanto “verità parziali”. E si potrebbe continuare così a lungo, ma non mi sembra giusto insistere a riportare gli aforismi del divo Giulio, perché voglio lasciare al lettore la sorpresa e il gusto di assaporarli da solo.
Andreotti non è stato un profeta politico, come De Gasperi, suo maestro e anima della ricostruzione postbellica, né un grande ideologo, come Moro, l’ideologo del compromesso storico. La sua era una filosofia spicciola, con uno spiccato senso della relatività della morale, dalla quale traspare una profonda conoscenza degli uomini, quanto meno degli italiani, che Andreotti stesso ha contribuito non poco a forgiare, per come sono stati e ancora sono.
Certo, vedendo come vanno oggi le cose, sono in tanti (in Italia ma anche in Vaticano, di cui era “cardinale esterno”) a provare addirittura un certo rimpianto per Andreotti. Se non altro perché le cose lui non solo le sapeva, ma le sapeva pure raccontare. (Roberto Tomei)
“Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi” di Giorgio Agamben, Edizioni Laterza, Bari, 2013, pp.68, euro 7,00
Recensione di Roberto Tomei
Ne avevamo viste tante, ma le dimissioni di un papa mai. Non almeno in tempi recenti, visto che per trovare un precedente si deve risalire al “gran rifiuto” di Celestino V, un evento - come si sa - coevo a Dante Alighieri. Ed è singolare che il frate della Maiella e Papa Ratzinger abbiano usato quasi le stesse parole per motivare l’abdicazione al soglio pontificio.
Il libro analizza la decisione di Papa Benedetto - subito definita per niente vile, anzi coraggiosa- sotto un duplice profilo: “nel contesto teologico ed ecclesiale che le è proprio”, da un lato, e per le conseguenze che se ne possono trarre “per una analisi della situazione politica delle democrazie in cui viviamo”, dall'altro.
Sotto il primo profilo, l’autore sottolinea il debito di Ratzinger nei confronti di Ticonio (autore di un prezioso Liber regularum) e della sua teoria del corpo bipartito della Chiesa, l’essere cioè questa - sono parole del giovane Ratzinge r- “fino al Giudizio universale, insieme Chiesa di Cristo e Chiesa dell’Anticristo”, onde quest’ultimo “cresce in essa e con essa fino alla grande discessio, che verrà introdotta dalla revelatio definitiva”.
In tale contesto, l’abdicazione di Benedetto XVI nasce dalla consapevolezza dell’esistenza del conflitto tra le componenti del corpo bipartito, conflitto che dilania la Chiesa e non può essere rinviato alla fine dei tempi, col rischio del prevalere delle forze del male su quelle del bene. Da qui la scelta dirompente, affinché la Chiesa sopravviva, di riportare alla luce il mistero escatologico, dato che solo così essa “potrà ritrovare la giusta relazione con la fine dei tempi”.
Ma l’esemplarità del gesto di papa Ratzinger non rimanda a un problema solo della Chiesa in quanto mette a fuoco, come si è iniziato a dire sopra, il tema della giustizia, proprio di ogni società. Qui Agamben rileva che anche il corpo della nostra società è bipartito, “forse ancora più gravemente” di quello della Chiesa.
E se la nostra società sta attraversando una crisi profonda è perché” non mette in discussione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità; non soltanto… le regole e le modalità di esercizio del potere, ma il principio stesso che le fonda e legittima”.
Non è possibile, perciò, percorrere scorciatoie, cercando di assicurare attraverso il diritto positivo la legittimità del potere, poiché le istituzioni restano vive solo se entrambi i principi agiscono insieme senza pretendere di coincidere.
Una società, insomma, può funzionare”solo se la giustizia (che corrisponde, nella Chiesa, all’escatologia) non resta una mera idea, del tutto inerte e impotente di fronte al diritto e all’economia”. (Roberto Tomei)
Nusja e Virgjer di Sonia Topazio, Botimet Dudaj Ed., Tirana, pp.170, 500 lek
Recensione di Roberto Tomei
Il racconto, scritto da Sonia Topazio, per ora pubblicato solo in lingua albanese, è incentrato su una storia d’amore nella declinante dittatura di Ceausescu, ed è ambientato tra Italia e Romania.
di Roberto Tomei
Uno dei più comuni tra i luoghi comuni italici dice che il Sud vive sulle spalle del Nord, cioè dell'Italia che produce.
di Roberto Tomei
Una delle giustificazioni fondamentali dell’economia di libero mercato è che “il perseguimento del profitto individuale fornisce anche il meccanismo migliore per il perseguimento del bene comune”. Sennonché tale “certezza” è stata incontrovertibilmente smentita. Stando all’opinione degli esperti, infatti, nel duemila il 10% dei ricchi deteneva l’85% della ricchezza mondiale totale e negli anni successivi non solo le diseguaglianze tra gli uomini sono andate crescendo, ma la povertà si è diffusa in vaste aree del pianeta.
“Condannati preventivi. Le manette facili di uno Stato fuorilegge” di Annalisa Chirico pp. 161 - Editore Rubettino, euro 10,00
Recensione di Roberto Tomei
Come insegnano i processualisti, per tutta la durata del processo, l'incolpato di un reato è nient'altro che un imputato. Diventa colpevole soltanto allorché interviene la sentenza definitiva di condanna passata in giudicato.
Il potere che frena di Massimo Cacciari, Edizioni Adelphi, Milano, 2013, pp.211, euro 13,00.
Recensione di Roberto Tomei
L’incipit della riflessione di Cacciari è un passo della Seconda lettera ai Tessalonicesi, che la tradizione attribuisce a san Paolo, nel quale compare la figura del katechon, ossia un qualcosa o un qualcuno che contiene-trattiene-frena il definitivo trionfo dello Spirito dell’empietà, ritardando con ciò stesso il suo annientamento per la forza del soffio della bocca del Signore.
Il testo di san Paolo, oltre ad aver assunto un immenso valore nella tradizione teologica (come si vede anche dall’antologia dei suoi passi più significativi, che opportunamente correda il volume), è stato oggetto, ben al di là di questa, di una riflessione generale sulla “teologia politica”(in particolare nell’opera di Carl Schmitt), ossia sulle forme in cui idee e simboli escatologico-apocalittici si sono venuti secolarizzando nella storia politica dell’Occidente, fino all’attuale oblio della loro origine.
In un dialogo serrato con la predetta tradizione(da Agostino a Dostoevskij), soprattutto con l’opera di Carl Schmitt, rispetto alla quale si pone in “divergente accordo”,Cacciari, dopo aver sviscerato la relazione tra katechon , impero e Chiesa, conclude rilevando l’”apocalittica” aporia di un katechon che vuole contenere in sé il mondo, dato che non può darsi nomos del mondo. Viceversa, egli sottolinea come esistano soltanto” forze, potenze decisive che operano sul piano globale e producono in base alle norme interne al loro funzionamento”, dunque intolleranti di ogni katechon.
In definitiva, secondo Cacciari, ciò che la crisi permanente oggi ragionevolmente consente di affermare è che dalle trasformazioni indotte da queste forze non emergeranno nuove potenze catecontiche, ma forse soltanto “grandi spazi” in competizione, con élites tra loro in conflitto, ma tutte accomunate dall’insofferenza verso qualsiasi potenza trascenda il loro stesso movimento. Occorre, perciò, prendere atto che Prometeo si è ritirato e che per il nostro globo scorazza Epimeteo, “scoperchiando sempre nuovi vasi di Pandora”. (Roberto Tomei)
La pazienza del nulla, di Arturo Paoli., edizioni Chiarelettere, Milano, 2012,
pp.111,euro 8,00
Recensione di Roberto Tomei
Nato a Lucca nel 1912, Paoli partecipa alla Resistenza dal 1943 ed è attivo nel proteggere gli ebrei perseguitati dai nazisti, ciò che gli varrà la menzione nel Muro d'Onore dei Giusti a Yad Vashem.
Nel 1940 diventa presbitero e svolge il suo ministero a Lucca fino al 1949. La sua vita si complica con il trasferimento a Roma, perché all'Azione Cattolica, di cui viene nominato vice assistente, si scontra con l'allora presidente nazionale, Luigi Gedda. Dimesso dall'incarico, viene nominato cappellano degli emigranti in Argentina.
La sua vita cambia radicalmente dopo un incontro fortuito, con Jean Saphores, missionario appartenente all'Ordine dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, di cui presto entra a far parte, vivendo il noviziato nel deserto del Sahara.
Si trasferisce poi in Argentina, Brasile e Venezuela, lottando sempre a fianco degli ultimi. Nel 2002 è rientrato in Italia, nella sua Lucca, dove ha creato una residenza aperta alla riflessione di singoli e gruppi sul fenomeno religioso.
Nel libro che qui si presenta, Paoli ci fa scoprire Dio nel deserto, lì dove regnano silenzio e vuoto, condizioni ottimali per una feconda contemplazione.
Come sottolineato dallo stesso Paoli, "il deserto è la cornice del nulla. Per scoprire valori allo stato nascente bisogna accettare di essere respinti lì dove nascono le cose. Bisogna avere la pazienza del nulla, non scacciarlo come un demonio, non affrontarlo col nostro coraggio, ma rispettarlo nella sua
qualità di nulla".
Mentre tutti i testi percorrono il sacro, introducendo, passo dopo passo, una "presenza" mai vissuta, ma offerta in una confezione già data e astratta, Paoli rovescia la prospettiva e ci porge una teologia dell'"assenza".
Ma l'importanza di Arturo Paoli nel panorama del cattolicesimo del Novecento non si coglie appieno se si dimentica di citare un altro suo libro fondamentale, ossia il Dialogo della liberazione, che sarà materia prima utilizzata da Gustavo Gutierrez per elaborare la teologia della liberazione,
che si propose come "una liberazione intesa non più soltanto in senso escatologico, ma anche politico, economico e culturale". Sappiamo tutti come andò a finire. La teoria e la prassi della teologia della liberazione furono accusate di contiguità con il marxismo e disconosciute dalla Santa Sede a seguito delle istruzioni Libertatis Nuntius, emanate dalla Congregazione per la dottrina della fede (Prefetto cardinale Joseph Ratzinger) il 6 agosto 1984.
(Roberto Tomei)
Avanti! – Un giornale un’epoca di Ugo Intini, Ponte Sisto Editore, 2013, pp. 750, euro 30,00
Recensione di Sonia Topazio
L’autore, esponente storico del Partito Socialista Italiano, ex direttore del quotidiano Avanti!, ricostruisce le tappe di un cammino costellato di uomini, fucina di idee moderne, che hanno fatto l’Italia: Bissolati, Turati, Gramsci, Mussolini, Nenni, Pertini, Craxi.
Scrive l’autore: “Io racconto la storia di un secolo (1896-1993), di quando i Partiti avevano la P maiuscola, perché purtroppo una generazione si è dimenticata di cosa era la politica vera e i Partiti veri. Penso che per questo Napolitano mi abbia incoraggiato” .
Attraverso le pagine del libro, si comprendono i fatti salienti della Bella Italia, dalle organizzazioni delle prime Croci Rosse, dei forni cooperativi, delle Case del popolo, dei primi scioperi. Si racconta della collaborazione tra cattolici e socialisti e dell’epoca del positivismo, passando poi per le primissime inchieste di controinformazione.
Si mette a confronto il caso Frezzi del 1897 con il caso Pinelli del 1969.
Ugo Intini descrive gli ambienti del massimalismo socialista, che produssero da una parte il comunismo, dall’altra il fascismo di Mussolini. Riporta pagine che spiegano come dal socialismo internazionalista sia nato il socialismo nazionalista, ovvero il fascismo e, in Germania, il nazionalsocialismo.
Si raccontano, inoltre, gli avvenimenti su Aldo Moro, le Formazioni Comuniste Combattenti , fino ad arrivare al giovane Bettino Craxi.
Un libro che per mole e minuzia di dettagli, anche inediti, si offre all’attenzione di tutti, ma in particolare a ricercatori e studiosi di storia.
Principe di questo mondo di Tullio Gregory, editore Laterza, Bari, 2013, pp.80, euro 12,00
Recensione di Roberto Tomei
L'autore descrive in queste pagine l'ascesa e il successo di Satana dalle origini alle soglie dell'Illuminismo.
Apprendiamo così che il demonio è ovunque, in ogni momento della nostra vita, e fa di tutto per cercare di sottrarci a Dio e arruolarci fra i suoi sudditi.
Vittime del demonio sono tutti gli uomini, ma soprattutto coloro che sono più fortificati nella vita spirituale, come santi ed eremiti, che col demonio stesso vivono in una lotta estenuante e continua.
Insieme al buon angelo custode ogni uomo ha presso di sé un angelo malvagio. Satana tenta persino il Cristo e continuerà sulla strada di far perdere gli uomini fino alla sua definitiva sconfitta nei tempi apocalittici.
La demonologia, del resto, risolve il problema centrale nell'esperienza religiosa della presenza del male, che altrimenti sarebbe difficile da spiegare in un universo creato da Dio.
La fenomenologia della presenza del demonio nella storia cristiana è un elemento essenziale della spiritualità medievale ma anche di quella della prima età moderna, tanto che tutta l'esistenza del cristiano è rappresentata come un continuo scontro con i diavoli, presenza ubiqua nella vita di ogni giorno.
Caratteristica che accompagna il diavolo è, poi, il colore nero, la sua nigredo, un elemento che accompagna tutta la tradizione esegetica e iconografica, tanto da far coincidere "la rappresentazione luce-tenebre con un serpeggiante razzismo e con il rifiuto e la demonizzazione del diverso".
Oltre che negli scrittori dei primi secoli, Gregory ci ricorda come il tema del diavolo continui ad agitare anche la filosofia moderna, ma cominci già a declinare lungo il Seicento, quando Cyrano de Bergerac si permetterà di sostenere che il degno posto delle dottrine demonologiche è nella Gazzetta degli sciocchi.
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