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Venerdì, 19 Apr 2024

I conti esteri italiani, riepilogati nell’ultimo bollettino economico diffuso da Bankitalia, raccontano una storia interessante, che è bene tenere a mente quando si parla dello stato di salute dell’economia del nostro paese. Un buon modo per iniziare è riportare la tabella che riepiloga la bilancia dei pagamenti fra il 2014 e i primi 11 mesi del 2016. Qui si osserva che il saldo dei redditi primari, che misura la differenza fra il ricavo dei nostri investimenti esteri e il costo degli investimenti dall’estero in Italia – quindi il pagamento degli interessi a questi investitori – nel 2016 è diventato positivo per circa 200 milioni di euro, dopo essere stato a lungo negativo per cifre assai importanti. Nel 2015, per ricordare l’anno più vicino a noi, i redditi primari sono stati negativi per 9,2 miliardi.

Questo risultato ha contributo al miglioramento del saldo di conto corrente, che nei primi 11 mesi dell’anno è risultato positivo per 40,4 miliardi, a fronte dei 21,2 dei primi 11 mesi del 2015. “L’incremento – si legge nel bollettino - è stato determinato soprattutto dal saldo dei redditi da capitale, in relazione all’aumento degli incassi da attività di portafoglio (in particolare fondi esteri), e dal crescente avanzo commerciale, legato all’ulteriore flessione della spesa in materie prime energetiche”.

Lasciamo per un attimo da parte la bilancia delle merci, sulla quale torneremo dopo, e concentriamoci sui redditi da capitale. “Nei primi undici mesi dell’anno – evidenzia Bankitalia – gli acquisti netti di titoli di portafoglio esteri da parte di residenti hanno raggiunto 66,7 miliardi, rappresentati per quasi due terzi da quote di fondi comuni”. Quindi nel 2016 è proseguita la tendenza degli investitori italiani a spostare all’estero i propri investimenti di portafoglio, quindi di titoli a scopo dividendi, dopo aver venduto titoli di stato italiani e bond bancari.

“Questi deflussi non appaiono correlati a modifiche recenti del clima di fiducia o all’incertezza, ma si inquadrano piuttosto in una graduale e ordinata ricomposizione del portafoglio delle famiglie residenti verso prodotti assicurativi e del risparmio gestito, con un conseguente incremento del peso delle attività sull’estero, spesso costituite da fondi comuni riconducibili a gruppi finanziari italiani”.

Insomma: la voglia di rendimento ha convinto gli investitori italiani a rivolgersi altrove. Questa tendenza dura dal 2013, ma si è notevolmente rafforzata dal 2014, come si può vedere da questo grafico che propone anche un interessante confronto con altri paesi europei. Salta all’occhio la grande fuga dall’estero dei capitali francesi nel 2011, al culmine della crisi dell’euro, per un valore pari all’8% del Pil, e poi la circostanza che la Germania sia stata l’unico paese che ha continuato a investire all’estero nell’anno peggiore.

Dell’Italia si nota che dal 2014 ad ottobre 2016 i residenti avevano investito all’estero 280 miliardi “pari a quasi un terzo dello stock complessivo alla fine del 2013, dopo sette anni di investimenti modesti o negativi”, sottolinea via Nazionale, spiegando che “tra l’inizio del 2014 e il terzo trimestre del 2016 le famiglie hanno ridotto le consistenze di titoli di debito italiani bancari e pubblici (per 182 e 73 miliardi, rispettivamente), effettuando acquisti netti di prodotti assicurativi e pensionistici, nonché di quote di fondi comuni (per 137 e 120 miliardi, rispettivamente)”.

Queste decisioni sono state in parte influenzate dal QE della Bce, che ha ridotto la disponibilità di titoli pubblici e ne ha diminuito i rendimenti e quindi spinto gli investitori a cercare fortuna altrove. Al tempo stesso il QE ha ridotto le necessità delle banche di emettere obbligazioni per finanziarsi, riducendone le obbligazioni. Questa tabella spiega da chi sono stati investiti i soldi e in quali strumenti. Analizzandola Bankitalia deduce che “gli investimenti all’estero dei residenti sembrano rispecchiare una ricomposizione del portafoglio volta a conseguire una maggiore diversificazione e rendimenti più elevati. Tali investimenti possono tuttavia ricondursi anche al limitato sviluppo del mercato azionario nazionale e delle obbligazioni societarie”. Quindi, non fuga all’estero per paura, ma per ricerca di rendimento e per scarsa disponibilità di titoli nazionali interessanti almeno in confronto al resto del mondo.

La crescita del tesoro estero degli italiani ha avuto conseguenze dirette, oltre che sui redditi primari diventati positivi, sulla nostra posizione netta, che è ulteriormente migliorata attestandosi, a settembre, a un deficit di 292,1 miliardi, circa il 17,5% del Pil, un valore basso rispetto a quello degli ultimi anni. Questo significa che si è ridotta la differenza fra il valore dei nostri investimenti all’estero e quello degli investimenti esteri da noi. Questa è una conseguenza dell’aumento del saldo di conto corrente e dell’aumento del valore delle nostre partecipazioni estere.

Tutta questa storia è visibile dal saldo disaggregato del Target 2, il sistema contabile dell’Eurosistema che monitora i flussi creditori e debitori fra le banche centrali, stabile con un deficit a 357 miliardi a dicembre. “Il progressivo ampliamento del saldo (negativo, ndr) tra gennaio e novembre – spiega Bankitalia – rappresenta soprattutto la contropartita del processo di diversificazione del portafoglio degli investitori italiani verso attività estere e del calo della raccolta bancaria sui mercati internazionali, avvenuto in parallelo alla creazione di liquidità attraverso i programmi dell’Eurosistema”.

Ancora una volta, quindi, il QE è il grande protagonista di questa storia, sia perché ha stabilizzato il mercato dei titoli pubblici, sia perché ha fornito alle banche la liquidità che prima gli intermediari andavano a cercare all’estero. Se tutto questo sarà vera gloria, però, lo potremo vedere solo dopo, ossia quando la politica monetaria si normalizzerà.

Infine, vale la pena spendere poche parole sulla bilancia delle merci. Nei primi 11 mesi del 2016, la bolletta energetica, ossia la spesa per le nostre importazioni di materie prime energetiche, è stata di appena 22,2 miliardi, in calo rispetto ai 29,6 dei primi 11 mesi del 2015. Quell’anno la spesa totale era stata di 32 miliardi, in calo rispetto ai 41,4 del 2014. Tutto ciò ha consentito di migliorare notevolmente il saldo positivo delle merci, pure se a fronte di un rallentamento della domanda estera globale. Ma adesso che il petrolio è tornato stabilmente sopra i 50 dollari questo vantaggio potrebbe venire meno. A questo punto, tenere in piedi i nostri conti esteri può diventare problematico.

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giornalista socioeconomico - Twitter @maitre_a_panZer

 

 

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