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Venerdì, 29 Mar 2024

Ridere nell’antica Roma, di Mary Beard, Carocci Editore, Roma, 2016, pp.347, euro 28.

Recensione di Roberto Tomei

“Come vuole che le faccia i capelli, signore? In silenzio”, fu la risposta di Enoch Powell, noto politico del Novecento dall’umorismo sardonico, nonché esperto classicista, che, proprio in quanto tale, doveva essere del tutto consapevole di aver mutuato la sua arguta replica dalla storiella del barbiere chiacchierone del Philogelos (o Amante del riso, raccolta di 265 storielle e battute di epoca tardo imperiale) in cui era transitata da Plutarco, che l’aveva attribuita a re Archelao di Macedonia.

Ma anche la barzelletta preferita di Freud (un membro della famiglia reale in viaggio nelle province nota tra la folla un uomo che gli assomiglia in modo straordinario. Gli fa cenno di accostarsi e gli domanda: “Vostra madre è stata a servizio a Palazzo, vero?” “No, Altezza – fu la risposta - ma c’è stato mio padre”) risale a quasi 2000 anni fa, essendo già citata da Macrobio e da Valerio Massimo. Esempi, questi, fra i tanti, che secondo l’autrice dimostrano come raccontiamo ancora barzellette romane, parola per parola, consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente.

Naturalmente, il riso contemporaneo ha subito influenze di ogni sorta, sicché sarebbe impossibile sostenere l’esistenza di una linea di discendenza priva di contaminazioni che va dalla cultura romana del riso alla nostra, ma certamente i nostri antenati, dagli umanisti del Rinascimento agli spiriti arguti del Settecento, saccheggiarono, sia pure in modo selettivo, le raccolte di barzellette dell’età classica, che sono tuttora alla base del linguaggio moderno dell’umorismo, del cabaret e delle freddure.

Con dovizia di argomenti, nel libro sono evidenziate le connessioni tra il riso, le diverse forme di gerarchia politica e civile e il convivium, in un groviglio ingarbugliato tra il riso e l’imitazione, il mimo e la controversa frontiera che separa la specie umana da quella animale, soprattutto scimmie e asini, materia in cui riveste grande importanza un testo come le Metamorfosi di Apuleio o, come oggi viene chiamato, L’asino d’oro, che verte, com’è noto, sul confine tra uomo e asino (il protagonista, Lucio, viene casualmente trasformato in asino e alla fine, grazie alla dea Iside, ritrova la sua forma umana), ma nel quale un importante episodio dell’intreccio è la festa (parodistica) del dio Riso (Risus).

Ma il riso aveva un suo ruolo anche nell’arte oratoria dei romani. Se il greco Demostene non scherzava affatto, era veemente e serio, addirittura cupo e arcigno, Cicerone invece non solo era dedito allo scherzo, ma si faceva spesso trascinare dallo scherzo sino alla buffoneria e, pur di averla vinta nelle cause da lui perorate, trattava con riso e ironia anche questioni che richiedevano austerità, dimenticando il decoro. Lo stesso Quintiliano ammette che alcuni degli espedienti cui ricorreva Cicerone per suscitare una risata erano pericolosamente vicini a quelli del mimus e dello scurra, come tali non appropriati a un oratore del suo livello. Sta di fatto che le battute di Cicerone (dicta o facetiae) compaiono spesso nel Rinascimento e fino al Settecento, mentre solo con l’avvento del mondo moderno ci si è dimenticati che egli fu un grande amante del riso.

Molte anche le pagine dedicate nel libro al rapporto tra il riso e il potere (con potenti che facevano battute benevole e altri che reprimevano con la violenza persino la più bonaria presa in giro) e al ”triangolo culinario” di riso, adulazione e cibo (con scrocconi che ridevano a comando ma che dovevano anche “produrre” il riso degli altri convitati, in cambio di un buon pranzo).

Nelle rappresentazioni letterarie del mondo romano, invece, con ripetuti moniti a non ridere o a ridere poco (per tutti, si veda Ovidio), quasi sempre il riso delle donne è tenuto sotto controllo, anche se ci è giunta una memorabile serie di battute attribuite a Giulia, la figlia di Augusto, donna di facili costumi, che per i suoi adultèri finì esiliata e morì in solitudine. Quando quelli che erano a conoscenza della sua condotta vergognosa si stupivano della somiglianza dei figli al marito Agrippa, nonostante concedesse il suo corpo a Tizio, Caio e Sempronio, ella diceva: “Non prendo mai a bordo un passeggero se non quando la stiva è piena”.

Mai avrei pensato alla “stupefacente centralità del riso” a Roma, se non avessi letto il piacevolissimo libro della Beard che, oltre a essere ben scritto e documentato, ha l’indubbio merito di farci pensare alla cultura romana in modo un po’ diverso.

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