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Giovedì, 28 Mar 2024

Ogni giorno, quando facciamo il pieno all’auto attingiamo a un pozzo che sembra senza fondo – ma così non è – delle risorse petrolifere mondiali. Dietro questo gesto così semplice e familiare si agita un mondo estremamente complesso che da numerosi decenni scrive inosservato i capitoli più rilevanti della nostra storia economica.

Anche oggi le vicissitudini del mercato petrolifero, che sono tecniche, economiche e soprattutto politiche, stanno silenziosamente scrivendo la nostra cronaca economica, solo che pochi ci fanno caso, e ancor meno se sottraiamo dallo sparuto gruppo degli osservatori quegli specialisti che masticano il birignao del mondo petrolifero. Gente che usualmente parla a se stessa e che, quindi, non ha voglia di raccontare il mutamento del mercato petrolifero che sta generando un profondo cambiamento, non solo di tipo ambientale, ma soprattutto geopolitico. Il boccino della produzione si sta lentamente spostando da Oriente a Occidente grazie soprattutto al cambiamento tecnologico. E, al tempo stesso, il petrolio rimane alla base delle previsioni degli esperti sui tassi di inflazione dai quali dipendono le decisioni di politica monetaria delle banche centrali.

Basta questo a connotare l’oro nero come l’autentico lubrificante del nostro circuito economico globale, specie se consideriamo che proprio l’energia a basso costo è stato lo straordinario motore dello sviluppo economico iniziato dal secondo dopoguerra.

Il nuovo capitolo di questa storia potremmo farlo iniziare il 30 novembre scorso, quando l’Opec siglò a Vienna un accordo storico per diminuire la produzione di greggio, dando seguito a numerosi conciliaboli che si erano svolti nei mesi precedenti e che avevano coinvolto anche la Russia. Il mondo aveva conosciuto un’abbondanza di offerta che aveva finito, insieme con diversi altri fattori, non ultimo la notevole quantità di debiti contratta dal settore petrolifero, a deprimere notevolmente le quotazioni.

L’accordo di Vienna si proponeva proprio di tagliare la produzione e fu un segnale importante per i mercati, cui si aggiunse quello arrivato dai produttori non Opec, con la Russia in testa, che annunciarono di voler ridurre di diverse centinaia di migliaia di barili al giorno la loro produzione.

Al di là delle quantità, era il segnale che aspettavano i mercati. Il petrolio rimbalzò tornando stabilmente sopra i 50 dollari al barile, dove con alti e bassi è rimasto fino a poche settimane fa, ritornando di poco sotto solo di recente. E questo ci porta al secondo paragrafo del nostro nuovo capitolo: la produzione di shale oil e gli Usa.

Anche i meno appassionati delle vicende petrolifere avranno orecchiato di questa nuova tecnica che consente di estrarre petrolio dalla roccia o dalle sabbie bituminose. Il Canada è diventato un alfiere di questa produzione e lo sono diventati soprattutto gli Usa, che proprio grazie allo shale oil estratto dal loro bacino permiano, una vasta area che dal Texas occidentale arriva fino al Nuovo Messico, che deve il suo nome all’epoca geologica cui risalgono le rocce dalle quali viene estratto il greggio, sognano di poter diventare un giorno più o meno lontano indipendenti dal petrolio degli sceicchi. L’accordo di Vienna, fra le altre cose, rialzando i prezzi, ha rimesso sul tavolo la variabile shale, la cui produzione, al livello dei prezzi che aveva raggiunto il petrolio, era del tutto insostenibile. Ora che invece i prezzi sono saliti, e insieme sono diminuiti i costi di produzione, lo shale oil made in Usa è diventato di nuovo un affare e, infatti, la produzione, dal dicembre scorso, è aumentata notevolmente.

L’aumento di produzione degli Usa è arrivato in un contesto di cambiamento degli equilibri globali del mercato del petrolio ed è potenzialmente dirompente, visto che ormai da più di un anno gli Usa hanno eliminato le restrizioni (ban), in vigore per decenni, all’export di petrolio e adesso concorrono in maniera piuttosto aggressiva alle forniture globali.

Tutto ciò ha determinato un sostanziale cambiamento nella mappa del Grande Gioco petrolifero, il cui esito è molto semplice da comprendere: l’importanza dei produttori tradizionali è diminuita e così pure il loro ruolo politico.

A fronte di questo scenario, maturano cambiamenti epocali anche sul versante della produzione tradizionale. Di recente l’IEA, l’Agenzia internazionale dell’energia, ha pubblicato alcuni dati che rilevano come le scoperte di nuovi pozzi petroliferi siano diminuite parecchio. Le compagnie continuano a tagliare i costi di esplorazione con la conseguenza che i progetti convenzionali autorizzati per cercare il petrolio sono al più basso livello degli ultimi 70 anni. In particolare, le scoperte di petrolio sono diminuite a 2,4 miliardi di barili nel 2016, a fronte di una media di 9 miliardi l’anno lungo gli ultimi 15 anni. Al tempo stesso, il volume di risorse estratto da progetti autorizzati per lo sviluppo è diminuito a 4,7 miliardi di barili, il 30% in meno rispetto al 2015, conseguenza del fatto che i progetti che si sono tramutati in decisioni di investimento sono calati al livello più basso dagli anni ‘40. Che sta succedendo?

Secondo l’IEA, che ha diffuso i dati, questo brusco ribasso nell’attività del settore tradizionale dell’estrazione è la conseguenza dell’altrettanto brusco taglio degli investimenti provocato, o quantomeno incoraggiato, dal calo dei prezzi petroliferi. E’ interessante osservare, tuttavia, che il crollo del settore tradizionale si associa a una notevole resilienza dell’industria statunitense dello shale, che è rimbalzata notevolmente di recente, anche grazie al notevole ribasso dei costi – circa il 50% in meno dal 2014 – che ha reso i prezzi attuali più che convenienti per far ripartire la produzione.

E’ vero che al momento il settore tradizionale pompa ogni giorno 69 milioni di barili che coprono in grandissima parte il fabbisogno quotidiano globale di 85 milioni, ma è vero altresì che la produzione di shale ormai ha superato i sei milioni di barili al giorno e che buona parte arriva dagli Usa che perciò sono diventati strategicamente importanti nel mercato petrolifero. Tanto più in un contesto dove si prevede una crescita globale della domanda di petrolio di 1,2 milioni di barili al giorno l’anno nei prossimi cinque anni a fronte della quale il crollo degli investimenti potrebbe condurre a una notevole restrizione dell’offerta.

Ciò malgrado la spesa per investimenti è prevista ancora in calo quest’anno e il livello dei progetti di esplorazione approvati rimane depresso. “Ogni evidenza mostra un mercato del petrolio a due velocità – ha dichiarato Fatih Birol, direttore esecutivo dell’IEA – con le nuove attività a un livello storicamente basso del settore tradizionale che contrasta con la notevole crescita del settore shale statunitense. La questione chiave del futuro del mercato del petrolio è per quanto tempo una crescita del settore shale può compensare il rallentamento del resto dei settori”. Questione che è economica, evidentemente, ma soprattutto strategica. Ammesso che lo shale riuscisse nel tempo a equilibrare l’offerta di petrolio, questo farebbe degli Usa una potenza energetica con potenziali effetti destabilizzanti sullo scenario globale.

Al momento, i dati ci dicono che l’industria Usa ha notevolmente abbassato il costo di produzione, tanto che adesso risulta persino più competitiva rispetto a diversi metodi tradizionali. La media del prezzo di equilibrio del Permian basin texano quota adesso intorno ai 40-45 dollari al barile e si prevede che la produzione aumenti di 2,3 milioni barili al giorno entro il 2022 al prezzo corrente, e anche di più se i prezzi dovessero salire ancora. Al contrario, il settore offshore, che è strategico in quanto pesa un terzo della produzione di petrolio, è stato duramente colpito dalla crisi.

Nel 2016, solo il 13% dei progetti approvati era offshore, a fronte di più del 40% osservato fra il 2000 e il 2015. Nel Mare del Nord, ad esempio, gli investimenti globali sono arrivati a 25 miliardi di dollari nel 2016, circa la metà del livello del 2014.

Questi andamenti sembrano abbastanza consolidati da lasciar intravedere la profonda metamorfosi che si sta determinando nel mercato petrolifero. Un grande produttore emergente, assai vitale ed efficiente, sta lentamente rubando quote di mercato ai vecchi produttori, costosi e in debito di investimenti. Sembra la storia della Cina e della sua singolare tenzone iniziata quindici anni fa con le economie avanzate. Ma stavolta la Cina è l’America del Nord. E la fine della storia sarà molto diversa.

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giornalista socioeconomico - Twitter @maitre_a_panZer

L’articolo è stato pubblicato anche sul n. 22 di Crusoe, newsletter in abbonamento prodotta da Slow News

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