Lo sciagurato blocco dei contratti del pubblico impiego, nonostante la sentenza della Consulta n. 178, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 29 luglio 2015, ne abbia dichiarato l’incostituzionalità, continua di fatto a protrarsi ormai da 8 anni e, allo stato, non sembra vedere spiragli di luce, dal momento che il confronto avviato da qualche mese tra Aran e sindacati sembra precipitato nelle sabbie mobili.
Se fino a qualche mese fa gli ostacoli che il governo frapponeva a un rapido sblocco erano la mancanza del nuovo testo unico del pubblico impiego (entrato in vigore il 22 giugno 2017) e il riordino del comparti di contrattazione, con la riduzione da 11 a 4 (definito, il 13 luglio 2016, con un accordo-quadro tra Aran e sindacati), adesso, per quei pochi che non lo sapessero, è noto il vero motivo: la mancanza di risorse sufficienti a coprire l’onere di quei miseri aumenti mensili lordi a regime (per il triennio 2016-2018) di 85 euro, concordati tra governo e sindacati confederali con l’intesa del 30 novembre 2016, alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso.
Al momento, il governo ha stanziato 1,2 miliardi, a fronte dei 3 necessari per garantire la copertura finanziaria per il personale in forza al comparto delle funzioni centrali, mentre per i lavoratori dei restanti comparti di contrattazione (compreso quello di università e ricerca) l’onere – come noto - è a carico dei bilanci degli enti di appartenenza.
Una comportamento, quello del governo, davvero paradossale e inaccettabile che, di fatto, sta eludendo da più di due anni una sentenza della Corte costituzionale, ma che continua a sperperare ingenti risorse, erogando, a destra e a manca, bonus di ogni genere (stando ad alcuni calcoli, ammonterebbero ad oltre 50 mld) che, lungi dal creare occupazione, sembrano finalizzati ad accrescere un consenso che, invece, giorno dopo giorno, si sta irreversibilmente riducendo.