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Martedì, 23 Apr 2024

Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica di Giuseppe Antonelli, Editore Laterza, Roma-Bari, 2017, pp.127, euro 14.

Recensione di Roberto Tomei

Il libro è una riflessione sulla lingua utilizzata dai politici nella cosiddetta Seconda Repubblica. Si tratta, come ognuno può constatare, di una lingua volgare, già a partire dal fatto che l’eloquenza di molti politici fa un uso distorto sia della parola che del concetto di popolo. Un uso dal quale, sottolinea l’autore, “discende quasi sempre una retorica dell’abbassamento”.

Mitizzando il popolo sovrano, lo si tratta, in realtà, come un popolo bue, cui rivolgersi con frasi terra terra, come un bambino capriccioso da viziare in ogni modo, pur di portarlo dalla propria parte. Da qui una lingua che è, al contempo, paternalista e antipedagogica.

Non ci sembra perciò azzardato sostenere, come fa appunto l’autore, che l’avvento della Seconda Repubblica è stato segnato da una rivoluzione linguistica, esito di un’involuzione che ha portato l’italiano della politica da una lingua artificialmente alta e talora incomprensibile (tra i tanti, basti ricordare il caso della formula delle “convergenze parallele”, attribuita a Aldo Moro) a un’altra altrettanto artificialmente bassa, capace di banalizzare tutto, anche le questioni più complesse, alle quali peraltro dovrebbe far fronte.

Questo passaggio è stato accelerato dallo spostamento del dibattito politico, prima nell’ambito dei talk-show (dove tutto si è ridotto a chiacchiera televisiva, talora, addirittura, a rissa non solo verbale), poi nel web, ossia nei blog, nei social network e nelle chat, dove spesso spopolano i cretini.

Ne è scaturita una “proliferazione di parole che cerca di colmare il difetto di presa sul reale” (Christian Salmon), con l’argomentazione cancellata dalla narrazione e l’addio alla vera dialettica.

Di parole, insomma, se ne dicono più di prima, ma sono parole d’ordine, ripetute talora ossessivamente; di ragionamenti, invece, se ne fanno sempre meno, né si cerca di stimolarli, come dimostra la terribile formula del “mi piace”, che trasforma in passivi ripetitori di messaggi preconfezionati, ulteriore manifestazione di una “rete” orizzontale ma all’occorrenza anche verticale e verticistica.

Se in principio c’era il politichese, oggi c’è un linguaggio diverso, che l’autore ha ribattezzato il politicoso, prendendo a prestito un termine coniato nel 1994 da Novelli e Urbani. Si tratta di un linguaggio fatto di favole per adulti, che affascinano chi si lascia affabulare.

Bisognerebbe, invece, che tornassero a contare le idee, non le parole staccate dalla realtà delle cose ed espresse dal partito unico dell’inazione. Ci vuole insomma una narrazione che sia preceduta da una visione, cioè da un progetto politico innovativo.

Speriamo solo di esserne ancora capaci.

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