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Giovedì, 28 Mar 2024

L’ultima lezione di Zygmunt Bauman. Con un saggio di Wlodek Goldkorn, Editore Laterza, Roma-Bari, 2018, pp.I-XLI, 75, euro 9.

Recensione di Roberto Tomei

Il volume che qui si presenta contiene, oltre alla lezione sulla fine del mondo (tenuta da Bauman a Prato il 3 novembre 2016, a meno di tre mesi dalla morte), il saggio, finora inedito in italiano, su un aspetto dell’eredità del XX secolo, quello della memoria dell’Olocausto, tuttora di grande attualità. A far da contorno, è stato incluso anche un saggio di Goldkorn, utilissimo per farci comprendere l’accidentata biografia dell’autore e l’importante ruolo di intellettuale pubblico da lui svolto in questi anni.

Nella lezione sulla fine del mondo, Bauman si concentra” sui motivi che spingono le persone, in un certo momento della loro storia, a dedicarsi con una passione e un interesse particolari a predizioni, congetture e manifestazioni di panico al pensiero di una possibile fine del mondo”. A suo parere, molti vivono questa condizione perché non si sentono sicuri di riuscire a controllare le loro vite.

Al riguardo, lo studioso polacco fa tre esempi: il collasso degli istituti di credito, che ha ridimensionato le spinte consumistiche; il grande afflusso di stranieri, arrivati qui senza un posto nel mondo, sicché molti temono che una simile disgrazia possa colpire anche loro; infine, i ripetuti terremoti che hanno colpito il nostro paese, una tragedia inaspettata che ha distrutto vite e gioielli della nostra storia, cogliendoci impreparati. Ne è derivata la perdita di fiducia nel futuro, anche se, da parte nostra, secondo Bauman, qualcosa possiamo fare, come per esempio, prevenire il collasso del sistema del credito o la fuga improvvisa di migranti da guerre “sporche e disgustose”.

E’ interessante notare come anche in questa ultima lezione Bauman abbia inserito, là dove tratta dei terremoti, il riferimento all’idea illuministica della necessità di domare la natura per avere un mondo migliore, idea rivelatasi poi una premessa/promessa mancata, dato che a più di duecento anni di distanza dobbiamo constatare come tutti gli sforzi per dominare la natura non abbiano avuto alcun effetto.

Questo “mito” dell’era moderna costituisce anche l’incipit del più ampio saggio sulla memoria dell’Olocausto (sulla quale è da leggere l’approfondito studio critico di Adriana Spera, pubblicato su questo giornale la settimana scorsa).

Il mito incoraggiante dell’era moderna era la storia di esseri umani che, attraverso le loro abilità, riuscivano a tirarsi fuori dal pantano della condizione “naturale”, “precivilizzata”. Hobbes ci sperava e confidava che lo Stato ce l’avrebbe fatta a “gestire le faccende umane e a escludere tutto ciò che è ingestibile e indesiderabile”. L’attività di pulizia e l’obiettivo della purezza rappresentavano, insomma, il senso ultimo dello Stato moderno. Con l’Olocausto (termine improprio, secondo Bauman, che preferisce parlare di omicidio categoriale), esito ultimo della decisione che certe persone erano inadatte all’ordine nuovo e migliore di una società purificata da ogni imperfezione, abbiamo visto come è andata a finire.

Ma non basta. Sappiamo, infatti, che quel genocidio non è stato il solo (tra il 1960 e il 1979 ne sono stati contati almeno una dozzina). Da qui, la grande e condivisibile lezione di Bauman, secondo cui, in un mondo in concorrenza sfrenata per la violenza e il profitto, non resta altro che confidare nell’avvento di un’umanità solidale.

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