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Sabato, 20 Apr 2024

Con il Regio Decreto 31 agosto 1933, n. 1592, il governo fascista approvava il Testo Unico delle leggi sull'istruzione superiore. Nonostante la proverbialmente limitata lungimiranza del regime, il Testo Unico riconosceva l'importanza di "attrarre cervelli", come si direbbe oggi, istituendo "... presso il Ministero dell'educazione nazionale un Comitato centrale per le Opere universitarie ..." che, tra gli altri compiti "... favorisce l'afflusso degli studenti stranieri presso le Università e gli Istituti d'istruzione superiore del Regno e cura l'intensificazione degli scambi tra studenti italiani e stranieri".

Come spesso accade in Italia, il Testo Unico è sopravvissuto a lungo. Per essere più precisi, non è mai andato del tutto in pensione, ma ne sono state abrogate parti significative. L'ultima volta questo è successo nel 2002, quando, come ci informa l'autorevole Centro di Informazione sulla Mobilità e le Equivalenze Accademiche (CIMEA), "... con la ratifica della Convenzione di Lisbona, avvenuta tramite Legge 11 luglio 2002, n. 148, è stato introdotto in Italia il concetto di 'riconoscimento finalizzato del titolo estero'...".

Come si evince sempre dal sito web del CIMEA, o dalla pagina equivalente sul sito del MIUR, dal 2002 “l'equipollenza” è necessaria solo per il "riconoscimento accademico dei titoli", mentre per il riconoscimento "non accademico" - ovvero quello necessario per accedere a un concorso pubblico - è sufficiente la certificazione di "equivalenza", rilasciata dalla Funzione Pubblica ai sensi dell'Art. 38 del D.Lgs. 165/2001 e dell'Art. 2 del DPR 189/2009. Con riferimento al riconoscimento "non accademico" sia il CIMEA che il MIUR precisano altresì che per la "valutazione di titoli e certificazioni comunitarie" le amministrazioni possono decidere autonomamente previo parere del MIUR, ai sensi dell'Art. 12 delle L. 29/2006, che tratta appunto del riconoscimento di titoli di studio tra gli Stati membri dell'Unione Europea.

Nella corretta applicazione delle nuove norme, che rappresentano uno dei tanti tasselli attraverso cui l'Europa comunitaria cerca di abbattere le barriere che ancora esistono al suo interno, qualche amministrazione deve essersi però distratta.

Non si spiegherebbe altrimenti come mai il CIMEA senta la necessità di ricordare con una nota in grassetto che "...Il nostro sistema è ancora culturalmente influenzato dal concetto di 'equipollenza' come possibilità esclusiva di riconoscimento del titolo estero. A tal proposito si ricorda che la Legge 148/2002 non utilizza più tale termine e che per effetto dell’art. 9 è stata abrogata la precedente procedura di equipollenza."

Tra queste amministrazioni c'è purtroppo quella dell'Ingv, che ancora nel 2015 elaborava bandi per l'assunzione di ricercatori in cui si poteva leggere che "La partecipazione al presente concorso è libera, senza limitazioni in ordine alla cittadinanza..." e che "... a esso possono partecipare anche i candidati che abbiano conseguito presso un'università straniera un titolo di studio riconosciuto equipollente....", come già previsto dal lontano 1933; salvo poi soggiungere che "Pena l'esclusione dal concorso, il concorrente dovrà dimostrarne l'equipollenza, allegando alla domanda l'atto ufficiale che la sancisce", e ciò in palese violazione di quanto previsto dalla L. 148/2002.

Che si sia trattato di un errore lungo 13 anni, lo dimostra il fatto che nel 2016 il passaggio in questione è stato finalmente corretto con un riferimento alla "dichiarazione di equipollenza ovvero di equivalenza", relativamente alla quale il candidato deve dichiarare il possesso o almeno di aver avviato l'iter per ottenerlo.

Ma anche qui l'Ingv dimostra scarsa apertura e lungimiranza. Come si legge sul sito del MIUR, "L’equivalenza dei titoli di studio esteri è contenuta in un provvedimento rilasciato solo per il motivo indicato e valido solo se utilizzato a quel fine, per cui deve essere nuovamente richiesta e il provvedimento nuovamente riemesso, ogni volta che si ripresenti il motivo d’interesse.".

È sicuramente per questa ragione che diversi grandi enti di ricerca - ad esempio il CNR e l'INFN - almeno dal 2009 ammettono al concorso tutti i candidati stranieri, concedendo loro tempo fino a "... non oltre l'ultima riunione della Commissione esaminatrice..." per presentare la certificazione, pena l'esclusione dalla selezione (si veda ad esempio l'Art. 2, c. 2a, del bando di concorso del CNR a 36 posti di Ricercatore III livello). In questo modo risparmiano tempo e fatica sia il concorrente straniero, qualora non risulti vincitore della selezione, sia l'ufficio preposto della Funzione Pubblica, al quale non verrà chiesto di preparare una dichiarazione che a concorso finito sarà buona solo come carta da macero.

In questa ragnatela di amnesie e richieste irragionevoli è purtroppo caduta una giovane ricercatrice comunitaria che si stava accingendo a partecipare a un concorso dell'Ingv bandito nel 2015, ma sospeso fino a poche settimane fa.

La ricercatrice, che vanta sia una laurea sia un dottorato di ricerca conseguiti nella principale università del suo paese, è stata assegnista dell'Ingv per due anni, per essere poi assunta nel 2010 con un contratto a tempo determinato ancora in essere.

Grande è stata quindi la sua sorpresa quando ha ricevuto un decreto di esclusione dalla selezione del concorso bandito nel 2015 per non aver dimostrato l'equipollenza del suo titolo di studio.

In tutti questi anni nessuno le aveva chiesto nulla a riguardo, spingendola - forse incautamente - a ritenere che l'INGV avesse considerato “equivalenti” i suoi titoli di studio avvalendosi della sua autonomia nella "valutazione di titoli e certificazioni comunitarie" prevista dal già citato Art. 12 della L. 29/2006.

In effetti, l’INGV avrebbe potuto valutare favorevolmente il fatto che la candidata sia in possesso del titolo di dottore di ricerca, che per definizione è un titolo di rango superiore alla sola laurea nonché tenere conto del fatto che è cittadina di uno dei due paesi europei che hanno siglato con l'Italia uno specifico trattato per rafforzare ulteriormente la tutela reciproca dei titoli di studio rispetto a quanto previsto dal quadro normativo comunitario.

"Le procedure di reclutamento dovranno essere aperte, trasparenti e, per quanto concerne il personale ricercatore e tecnologo, comparabili a livello internazionale nella prospettiva della creazione di un mercato del lavoro europeo attrattivo, aperto e sostenibile per il personale di ricerca" è quanto si legge non nelle spesso roboanti declaratorie dell'Unione Europea, ma nel Regolamento del Personale Ingv recentemente entrato in vigore (Art. 5, comma 7). Ma dal dire al fare c'è di mezzo il mare, come dice un noto proverbio, e questa vicenda lo dimostra ampiamente.

Purtroppo, ormai è inutile piangere sul latte versato; nonostante ripetuti tentativi di appello contro la decisione della direzione dell'Ingv, per ottenere almeno di essere ammessa con riserva, l'esclusione è stata confermata, e il concorso è andato avanti. Ora la questione quasi certamente finirà in Tribunale ed è probabile che all'Ingv arriveranno anche le rimostranze dell'ambasciata del paese di provenienza della ricercatrice esclusa. Ancora una volta l'Ingv ha rimarcato la distanza siderale che esiste tra la sua amministrazione e i suoi (aspiranti) ricercatori.

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Coordinatore nazionale Usi-Ricerca/Ingv

 

 

 

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