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Martedì, 19 Mar 2024

Un’altra settimana di “governo del cambiamento” … in peggio. L’Italia è passata dalla derisione nei confronti dei suoi governanti (ricordate le reazioni alle estemporanee performance di Berlusconi nei vari summit internazionali?) all’emarginazione. Costretta a subire lezioni di accoglienza dal maestrino Macron che non è da meno rispetto a Salvini, stando al rapporto pubblicato da Oxfam sulla situazione dei migranti ai confini con la Francia.

Dopo una campagna elettorale a suon di promesse irrealizzabili, tenuto conto del livello di indebitamento raggiunto dal nostro paese, è il momento di dare qualche risposta.

Naturalmente i grillini per recuperare consenso - o forse per farci dimenticare le terrificanti, quanto disumane, dichiarazioni quotidiane del ministro dell’interno, che tanta presa hanno su quella parte dell’opinione pubblica sempre più imbarbarita – hanno ritirato fuori il loro vecchio cavallo di battaglia: l’abolizione dei vitalizi.

Una proposta tanto incostituzionale quanto pericolosa, ma sostenuta, guarda caso, dal presidente dell’Inps, Tito Boeri. Pericolosa, perché oggi tocca ai deputati, domani ai membri degli altri organi costituzionali e, dopodomani, magari, a quanti hanno una pensione calcolata con il metodo retributivo o misto (retributivo-contributivo). Come già ventilato dal sottosegretario Brambilla (Lega).

Ma, ci dicono: la proposta sui vitalizi fa recuperare risorse. Quante? 40 miseri milioni, se tutto va bene.

Sembra più la foglia di Fico per giustificare l’estensione del contributivo a tutti, per tagliare le pensioni, come è già successo in Grecia per imposizione della famigerata troika.

E dire che di risparmi sostanziosi se ne possono fare ben altri, per esempio, leggiamo dall’ultimo rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), che l’Italia nel 2017, ha speso in armi 26 miliardi di euro, pari a 70 milioni di euro al giorno.

E visto che poi non vogliamo accogliere chi fugge dalle guerre, dobbiamo sapere che abbiamo esportato armi pesanti per oltre dieci miliardi di euro. Armi vendute, per esempio, all’Arabia Saudita con le quali bombarda lo Yemen, oppure al Qatar e agli Emirati arabi, che le usano per sostenere i gruppi jihadisti e qaedisti. Il tutto, in barba alla legge 185/90, che proibisce all’Italia di vendere armi a paesi in guerra o che violano i diritti umani. D’altronde, il governo italiano non ha neppure firmato il Trattato per la Proibizione delle armi nucleari (2017).

Poi, qualcuno, bontà sua, dice: accogliamo solo chi fugge dalle guerre.

Salvini non vuole neppure quelli e ci ripete ogni giorno “aiutiamoli a casa loro”, come se si trattasse solo di migranti economici. E in tal caso, dov’è più la casa di coloro le cui terre vengono svendute alle grandi potenze? Ad esempio, in Madagascar è stata venduta la metà dei terreni coltivabili alla Corea del Sud. In Uganda, 22mila persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per far posto alle attività di una società che commercia legname: l’inglese New Forest Company. In Tanzania, un emiro ha acquistato 400mila ettari per andarvi a caccia ed espulso chi vi viveva. In Kenya, il presidente, volendo un porto, ha ceduto al Qatar, che si è offerto di costruirglielo, 40mila ettari di terreno su cui e di cui vivevano circa 150 pastori e pescatori. In Etiopia, la bassa valle dell’Omo, è oggetto di un piano di sfruttamento intensivo da parte di capitali stranieri che ha determinato l’evacuazione di circa duecentomila indigeni. E tra i capitali stranieri investiti, circa duecento milioni di euro, sono italiani.

La Banca mondiale ha stimato, ma il dato è fermo al 2009, che nel mondo sono stati acquistati o affittati, per un periodo che va dai venti ai 99 anni, 46 milioni di ettari, due terzi dei quali nell’Africa subsahariana.

Ciò è possibile perché in Africa non esistono titoli di proprietà, vengono rogitati, per quel che vale dinanzi a governi autoritari, tra il 2 e il 10% dei passaggi di proprietà, tant’è che i governi possono vendere a nome di tutti. A quale prezzo? Dai due ai dieci dollari ad ettaro.

Il fenomeno del land grabbing, ovvero l’accaparramento della terra, negli ultimi vent’anni ha assunto proporzioni enormi. Sempre secondo Oxfam, confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale, rale fenomeno, negli ultimi cinque anni, è cresciuto con una progressione pari al mille per cento.

Sono circa cinquanta i Paesi venditori, una dozzina i Paesi compratori, un migliaio i soggetti privati (fondi di investimento, di pensione, di rischio) che fanno affari.

Siamo di fronte ad un neocolonialismo che foraggia guerre e governi dittatoriali per arricchirsi.

E dove non arrivano capitali “puliti”, si presentano le agromafie. Si sversano i rifiuti tossici che l’Occidente non può smaltire in terreni coltivabili.

Padre Alex Zanottelli, che in questi giorni è tornato sull’argomento lanciando un appello alla stampa, ha scritto a tal proposito: “Chi ha fame vende. Anzi regala. L’Etiopia ha il 46 per cento della popolazione a rischio fame. E’ la prima a negoziare cessioni ai prezzi ridicoli che conosciamo. Seguono la Tanzania (il 44 per cento degli abitanti sono a rischio) e il Mali (il 30 per cento è in condizioni di “insicurezza alimentare”). Comprano i ricchi. Il Qatar, l’Arabia Saudita, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, anche l’India. E nelle transazioni, la piccola parte visibile e registrata della opaca frontiera coloniale, sono considerate terre inutilizzate quelle coltivate a pascolo”.

I paesi ricchi hanno bisogno di biocombustibile, di olio di palma, oppure jatropha, utilizzata per i grandi mezzi meccanici.

“Anche le grandi società italiane partecipano a questo accaparramento di terra. Ad esempio, il gruppo Tozzi possiede 50mila ettari, altrettanti la Nuova Iniziativa Industriale. 26mila ettari sono della Senathonol, una joint-venture italosenegalese controllata al 51 per cento da un gruppo italiano” ha scritto Antonello Caporale sul blog raiawadunia.com

Ilaria Bifarini, una giovane economista, nel suo recente libro, I coloni dell'austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa (2018), sostiene che non dobbiamo far risalire tout court l’attuale sottosviluppo africano al passato coloniale. La disgregazione degli imperi coloniali a partire dagli anni ’50 ha prodotto la formazione di Stati nazionali indipendenti, i quali però non hanno avuto la possibilità di sviluppare le loro economie autonomamente perché le multinazionali e poteri finanziari glielo hanno impedito condizionando la classe politica e le élite locali. Insomma, sistema economico e vita politica di questi Stati sono eterodiretti dal postcolonialismo delle multinazionali.

Essi non hanno mai raggiunto una sostanziale sovranità politica ed economica e neppure monetaria

Se a tutto ciò aggiungiamo le politiche neoliberiste imposte a partire dagli anni ’80 dal Fmi e dalla Banca Mondiale, abbiamo il quadro completo del fallimento di queste economie.

L’Africa è stato il laboratorio di quelle politiche che ha anticipato quanto accaduto prima in sud America e poi in Grecia. Senza contare poi che, a causa del surriscaldamento globale prodotto dalle nostre economie, il territorio africano marcia veloce verso la desertificazione, un territorio che non può certo sfamare 1,2 miliardi di persone destinate, in assenza di politiche educative e di sviluppo, a raddoppiare entro il 2050.

Come si può dire aiutiamoli a casa loro se è a causa nostra, delle nostre politiche internazionali, di un colonialismo che si è solo trasformato senza mai cessare, che fuggono.

No, quello dall’Africa è un esodo inarrestabile, determinato soprattutto da quei paesi che lo rifiutano.

Come diceva Vittorio Arrigoni, “Restiamo umani”.

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