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Giovedì, 28 Mar 2024

Un breve quanto interessante paper pubblicato dal NBER ci comunica un’informazione molto utile su una delle tante questioni nascoste che sottostanno allo smart working, che si è diffuso pandemicamente insieme al Covid.

E’ bene appuntarsi questa nota, perché domani, quando il virus sarà solo un brutto ricordo, è assai probabile che lo smart working rimarrà fra noi, in versione riveduta e corretta, quale lascito – uno dei migliori si spera – di questo periodo orribile.

D’altronde, sarebbe difficile tornare indietro. La pandemia ha mostrato che molta parte della nostra vita negli uffici, non per tutti certo, ma per molti, può essere tranquillamente svolta fra le mura domestiche, con evidenti vantaggi per i lavoratori, che possono organizzare meglio le proprie settimane, per l’ambiente, che potrà godere di minor congestioni, e dulcis in fundo per i datori di lavoro.

Questi ultimi sono di solito quelli meno considerati. La consuetudine ci fa credere che siano loro i primi – e gli unici – a rimetterci, rinunciando alla prestazione in presenza, che potremmo definire il prezzo minimo che un qualsiasi lavoratore paga in cambio del suo diritto alla retribuzione. Se il lavoratore viene pagato senza venire in ufficio è del tutto ovvio che un normale datore di lavoro coltivi qualche dubbio sulla convenienza di questo contratto.

Ma questo sentire, frutto di epoche lontane, ha senso economico solo in quelle prestazioni lavorative – che sono ancora un’ampia maggioranza – nelle quali la presenza è la pre-condizione della prestazione. Per le altre, pensate ad esempio al vasto mondo dei servizi, rinunciare alla presenza in ufficio può rivelarsi persino conveniente per i datori di lavoro, che si accorgono d’improvviso come sia migliorata la propria contabilità dei costi.

Ed ecco che il paper NBER, che quantifica i consumi elettrici delle famiglie e delle imprese durante il lockdown, ci viene in aiuto. Indagine limitata, ovviamente, e per giunta solo agli Stati Uniti. E tuttavia sufficiente a sollevare domande – chi paga il costo dello smart working – e questionare antiche consuetudini. Il grafico sotto è più che eloquente.

Volendo quantificare, lo studio ha calcolato che gli americani hanno speso sei miliardi di dollari in più di consumi elettrici nelle abitazioni nel periodo fra aprile e luglio del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019. Dal che si deduce che le imprese abbiano risparmiato questi soldi. Almeno in buona parte, visto che una quota non calcolabile di questi consumi li hanno effettuati gli americani rimasti a casa senza lavoro.

In percentuale, nel secondo quarto del 2020 i consumi residenziali sono aumentati del 10%, a fronte di una diminuzione del 12% di quelli commerciali e addirittura del 14 di quelli industriali. Nelle 10 grandi aree metropolitane, i consumi residenziali sono stati ancora più elevati, conseguenza della circostanza che la percentuale di smart worker è stata circa 10 punti percentuali più elevata della media nazionale. Ciò significa che le aziende di queste aree hanno risparmiato anche di più.

Questi risparmi vanno aggiungersi ad altri. Basta ricordare solo alcuni dei costi che un’azienda deve sostenere per la presenza in sede dei propri dipendenti. I buoni pasto, per fare un esempio minimo. L’affitto di una sede, come caso limite. E basta osservare gli andamenti del settore immobiliare commerciale e direzionale – collassato durante i lockdown a differenza di quello residenziale – per capire come questi costi non siano affatto banali.

Lo studio sottolinea anche un’altra questione che solleva qualche dubbio sulla correlazione positiva fra smart working e ambiente. “Lavorare e studiare da casa – spiega il paper – ha un costo, soprattutto per chi vive in grandi case di periferia. Queste case, in media, non sono efficienti dal punto di vista energetico come scuole ed uffici. Questa riduzione dell’efficienza energetica diurna controbilancia parzialmente il risparmio energetico associato alla riduzione del pendolarismo”.

A conti fatti, pure al netto dei costi, lavorare da casa piace ai lavoratori e conviene in qualche modo pure alle imprese. L’ambiente magari ne gioverà meno, ma non ha mai avuto voce in capitolo. Queste poche osservazioni rafforzano, se possibile, il ragionevole convincimento che alla fine della pandemia lo smart working resterà fra noi.

Maurizio Sgroi
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giornalista socioeconomico
Twitter @maitre_a_panZer

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