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Mercoledì, 24 Apr 2024

Italiana di Giuseppe Catozzella - Editore Mondadori - Febbraio 2021, pp. 322, euro 19.

Recensione di Adriana Spera

La storia di un popolo – che in molti sembrano aver dimenticato, visto quanto la materia è trascurata nei programmi scolastici – ci insegna molto sui contemporanei.

Giuseppe Catozzella – dopo i libri sulle infiltrazioni delle mafie in Lombardia Alveare. Il dominio invisibile e spietato della ’ndrangheta del Nord, Editore Rizzoli, e Espianti, Editrice Transeuropa, nonché la “Trilogia dell’Altro”: Non dirmi che hai paura, Il grande futuro e E tu splendi, tutti editi da Feltrinelli, relativi al viaggio, alla guerra e all’approdo degli immigrati nel nostro paese e al razzismo che essi incontrano fra gli italiani – ora con Italiana, edito da Mondadori, ci racconta la storia di Maria Oliverio detta Ciccilla, l’unica donna a capo di una banda di briganti nell’Italia post-unitaria.

L’autore, pur essendosi documentato sugli atti dei processi a Maria Oliverio e al di lei marito, Pietro Monaco, depositati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, l’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito (i processi ai Briganti erano dinanzi ad un Tribunale militare) e l’Archivio di Stato di Cosenza, non rinuncia a qualche licenza narrativa.

Ma torniamo al romanzo. Al momento dell’arresto, nel 1864, la protagonista, Io narrante, così si presenta: «Sono Maria Oliverio, fu Biaggio, di anni ventidue. Nata e domiciliata a Casole, Cosenza, senza prole, di Pietro Monaco. Tessitrice, cattolica, illetterata». In verità, aveva frequentato e con profitto la scuola elementare «ma con la legge…è meglio fingersi idioti».

Figlia di Biaggio «nato per prendersi cura della terra, aveva mani callose e polpacci magri da pianura, il viso bruciato da trent’anni di sole feroce e grinzoso come l’argilla del bosco… per lui tutto doveva continuare com’era, anche se com’era faceva schifu. Era un grande lavoratore, aveva sopportato trent’anni di mesate non pagate, di botte e di minacce, trent’anni di chiamate a “mese”…ma superava tutto, e tornava a lavorare più di prima, due, tre giorni di fila senza mai fermarsi. Il suo padrone, il “cappello” Donato Morelli, lo chiamava il Mulo». Il suo sogno era che con l’arrivo della ferrovia quel mondo ingiusto sarebbe cambiato e sarebbe arrivata la ricchezza per tutti.

La madre, tessitrice anch’ella, il cui motto era: «Cu pecora si faci u lupu s’a mangia», invece, per Ciccilla fu simbolo di una sottomissione inaccettabile: «è proprio guardando i suoi occhi rassegnati di fronte alle crinoline e alle gonne di mussola d’India della contessa Gullo, la sua padrona, che ho imparato a scappare».

A quel tempo, la dimensione padronale della società borbonica si spingeva fino al punto di esigere dai sottoposti qualsiasi cosa. Alla famiglia Oliverio venne imposto di dare la prima figlia Teresa ai Conti Tommaso e Rossana Morelli da Pontelandolfo che non potevano avere figli.

Di questa figlia in famiglia non si parlava mai, era come se non fosse mai esistita, l’unica alla quale raramente se ne faceva cenno era Maria, alias Ciccilla, perché destinata anch’ella ad essere a breve data in affido.

Gli eventi storici talvolta cambiano il destino delle persone, ed è quel che accade a Ciccilla. Durante i moti di Napoli del ’48, i Morelli si trovavano in città, tentando di raggiungere la Reggia, finirono in mezzo ad una sparatoria, e persero la vita. E così Teresa, mai adottata, viene rispedita a casa dagli eredi dei conti di Pontelandolfo.

La giovane, abituata a tutti gli agi, si ritrova, così, catapultata in una realtà di miseria per lei inaccettabile, con genitori di cui quasi ignorava l’esistenza e addossa la colpa di quanto accaduto alla sorella Maria e giura che le avrebbe rovinato la vita.

Da questo momento inizia una persecuzione che per Ciccilla durerà tutta l'esistenza e che determinerà il suo infelice destino.

La nostra protagonista viene mandata a vivere dalla zia materna Maddalena, moglie del brigante alla macchia detto Terremoto, che vive in una capanna al margine del bosco. È difficile, per una bambina, ritrovarsi all’improvviso fuori dalla propria casa e senza i propri affetti, ma Maria è forte e poi ama la scuola, dove va con entusiasmo grazie anche ad una maestra che le fa scoprire il piacere della lettura fornendole libri.

La maestra Donati è un esempio tipico dei liberali antiborbonici del tempo: convinta che per cambiare le cose occorresse dare delle opportunità anche ai più poveri, tant’è che prova, a proprie spese, a far sostenere a Maria l’esame di ammissione alle scuole superiori.

Maria, che pure alla fine della scuola aveva iniziato a lavorare come la madre al telaio, la notte studia per superare l’esame però la sorella, Teresa, non solo riesce a far sparire la domanda di iscrizione all’esame, ma fa finire pure sotto processo e condannare al carcere duro la maestra e suo marito per attività antiborbonica. A Ciccilla si prospetta il futuro che aveva sempre rifiutato «Sarei stata come mamma, infelice e piegata sul lavoro, senza il tempo per pensare…le cose accadono senza chiedere e non abbiamo scelta, possiamo solo adeguarci».

Gli anni passano e Maria, pur lavorando duramente e subendo le angherie quotidiane della sorella, si fa sempre più bella e incontra l’amore della sua vita: Pietro Monaco. In realtà, il ragazzo era già stato notato da Teresa perché sostava ogni giorno al caffè Borbone, nella piazza del paese, con il suo amico e datore di lavoro, il ricco Salvatore Mancuso nipote degli uomini più facoltosi di Calabria: i Morelli. Pietro è un bel ragazzo, alto e forte; Salvatore, invece, grasso, basso e poliomelitico.

Alla fine, Teresa sposa il ricco Salvatore. Significativa delle dinamiche sociali del tempo, la scena del pranzo di nozze, l’umiliazione dei genitori Oliverio, trattati come appestati, «Io, che avevo imparato a leggere i loro silenzi, capivo che la vita, per tutti e due, al matrimonio della figlia maggiore era diventata uguale alla morte». Quel giorno Maria decide che sposerà Pietro per donare un giorno felice ai propri genitori.

La storia nuovamente irrompe nella vita della nostra protagonista quando Pietro parte militare. Nell’esercito conosce Gian Battista Falcone e Carlo Pisacane, scopre gli ideali risorgimentali e le gesta di Garibaldi, finisce per far parte della spedizione dei trecento che da Sapri speravano di sollevare un’insurrezione contro i Borbone, alleandosi con i contadini che invece li accolsero con i forconi «volevano fare l’Italia ..ma il momento non era quello giusto, il mondo non era pronto, il marciume del Regno, la corruzione e il degrado erano ovunque ma ancora non avevano iniziato a far puzzare di morte ogni piazza, ogni angolo, perfino ogni letto, così avevano incontrato soltanto rabbia e morte». Pietro sfugge miracolosamente alla morte e non viene identificato.

Intanto, nel Regno delle due Sicilie, se da un lato cresce la repressione della Guardia Nazionale, dall’altro la nobiltà e la ricca borghesia, anche i peggiori sfruttatori, compreso che i tempi stanno per cambiare, diventano liberali - “attendibili”, cioè da attenzionare, come si diceva al tempo - e fuggono «Mentre il Regno si svuotava, al suo interno tutti erano nemici di tutti, ognuno temeva di essere tradito dal vicino di casa, dal cugino, a volte anche dal fratello per una parola in più. Se dovevamo diventare figli della stessa Patria, saremmo stati tutti Caino».

Maria, dunque, sposa Pietro e ne conosce la durezza, i tradimenti, il disprezzo e la violenza del maschio verso la sua donna, d’altronde «l’amore e la morte, da noi della Sila, sono parenti stretti».

Pietro, quando apprende che sta per arrivare Garibaldi, torna sotto le armi per disertare ed unirsi alle camicie rosse. Partecipa a tutte le azioni dei Mille e gli viene persino conferita una medaglia – per il suo comportamento eroico nella battaglia di Capua – dal generale Sirtori (lo stesso che, allorché Pietro si dà al brigantaggio, gli darà la caccia).

Pietro si illude che con i Savoia tutto stia per cambiare, i contadini avranno le terre, le tasse più inique saranno tolte. Un miraggio che dura poco, quando si accorge che tutti i “cappelli” (i nobili borbonici) sono diventati dei patrioti «improvvisamente i difensori della conservazione imbracciavano i fucili della rivoluzione». Infatti, fatta l’Italia, tutto torna come prima, se non peggio, dice Ciccilla: «Eccola l’Italia…ecco perché siamo condannati a una guerra perenne per la vita … l’uno contro l’altro, tutti contro tutti. Stava nascendo un popolo di civette e quel popolo sarebbe stato l’italiano…il destino di noi italiani: o fai il ruffiano, il predatore,…oppure fai il ladro, il delinquente».

Queste sono pagine che lasciano molto da pensare ai corsi e ricorsi della storia d’Italia e ai comportamenti degli italiani. Situazioni che si sono ripetute alla caduta del fascismo, dei Savoia, della Democrazia Cristiana, di Berlusconi. Fino a ieri, tutti con chi era al comando e, il giorno dopo, tutti con i nuovi padroni del paese e, intanto, le ingiustizie, le disuguaglianze e i latrocini continuano e la situazione peggiora: chi è ricco lo è sempre di più, chi è povero arranca più di prima.

Una storia che si ripete anche nei momenti peggiori, come quello che oggi stiamo vivendo.

Mentre nel paese dilaga la repressione, avvengono stragi come quelle di Pontelandolfo e Casalduni, dove il generale Enrico Cialdini fece uccidere circa mille braccianti e distruggere i villaggi; in Calabria tornano a governare tutte le famiglie di sempre. Donato Morelli diventa plenipotenziario della regione.

Pietro, deluso e arrabbiato, decide di non tornare nell’esercito e si dà alla macchia. Per ritorsione, Maria, alias Ciccilla, viene arrestata a seguito di una delazione della sorella Teresa. Durante la detenzione capisce che la relazione tra questa e suo marito perdura, perciò, uscita dal carcere, la uccide e poi raggiunge il marito in montagna.

Sarà la prima donna a capo di una banda di briganti, una banda che vive di furti e sequestri ma che redistribuisce il bottino con i braccianti.

Traditi dai loro stessi compagni, Pietro muore in uno scontro a fuoco; Ciccilla riuscita a fuggire si asserraglia in una grotta dove resiste per giorni, ma alla fine verrà catturata, processata e condannata a morte. Condanna che il re traduce in ergastolo e lavori forzati nella famigerata fortezza di Fenestrelle, in Piemonte.

L’autore ci ricorda che la riforma agraria, richiesta dai nostri protagonisti, fu fatta nel 1944 dal ministro dell’Agricoltura del secondo governo Badoglio, Fausto Gullo, nipote di una bambina rapita dalla banda Monaco.

Un libro che lascia l’amaro in bocca perché, a distanza di più di un secolo e mezzo, nel nostro paese sfruttamento e abusi permangono e, oltre agli italiani, ci sono i nuovi schiavi: i migranti. Il sud spolpato dalle mafie e dalla cattiva politica, sta talmente male, sia dal punto di vista economico che ambientale, da andare verso lo spopolamento. Le risorse vanno sempre in prevalenza al nord, anche perché al governo ci sono in gran parte ministri settentrionali.

Adriana Spera
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