Lettera sul fanatismo, di Shaftesbury, introduzione di David Bidussa, edizioni Chiarelettere, Milano, 2016, pp. XXIX-56, euro 8.
Recensione di Roberto Tomei
Questo interessante e attualissimo volumetto fu pubblicato anonimo a Londra nel 1708, mentre la paternità di Anthony Ashley Cooper, (terzo) conte di Shaftesbury si venne a sapere solo dopo la sua morte, ossia nel 1737, quando venne indicata nella sesta edizione.
La Lettera si inserisce, da un lato, in un ciclo culturale (descritto da Paul Hazard) che si colloca a metà del percorso tra Rinascimento e Rivoluzione francese, quando a “una civiltà fondata sull’idea del dovere … tentarono di sostituire una civiltà fondata sull’idea di diritto … in cui l’uomo diventava la misura di tutte le cose”; dall’altro, con la proposta dell’ironia, implica, come sottolinea Bidussa nella sua Introduzione, “anche una considerazione dell’avversario culturale che si fronteggia e questo aspetto … ci riconduce a noi, oggi”.
Come spiegato da Locke, il fanatismo (Shaftesbury lo chiamava entusiasmo e a distinguerlo dal fanatismo occorrerà attendere poi Voltaire) è una condizione che poggia sull’idea di “essere in missione”, atteggiamento che può essere combattuto solo dalla ragione “ultimo giudice, e guida in tutto”. Su questa scia si inserisce Shaftesbury, che, per combattere il fanatismo, sostiene la necessità di far ricorso allo spirito irriverente (il wit), attesa la sua capacità di chiarire il senso delle cose, obbligando chi ne è oggetto a proporre argomenti e prove sulla fondatezza della propria opinione.
Il fanatismo, dunque, può essere combattuto solo dalla ragione, l’unica in grado di comprendere cosa c’è nella testa dell’”entusiasta”, di cui Shaftesbury sottolinea due precisi atteggiamenti “che esprimono una visione illiberale e sollecitano una dimensione totalitaria”: da un lato, lo sguardo complottista sulla realtà e, dall’altro, l’idea che solo divenendo guardiano del vero, espellendo l’ironia dal sentimento, si possa garantire la supremazia di Dio. La conseguenza che se ne ricava è che l’espulsione dell’ironia apre la strada alla dittatura, mentre chi ride e usa l’ironia è da considerare blasfemo.
La risposta di Shaftesbury per combattere il fanatismo (anticamente inteso come “apparizione che rapisce l’animo”) non è, perciò, il ricorso allo stato di polizia, ma la possibilità di dare spazio al libero pensiero, la coltivazione del buonumore.
Manifesto contro la malinconia e l’eccesso di serietà e, nel contempo, inno alla leggerezza, in quanto anticamera della libertà, la Lettera si pone come una lettura illuminante anche per il nostro tempo, attraversato da tanti fanatici affascinati dalla “bella morte”.
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