La via del sole di Mauro Corona, Editore Mondadori, Milano, 2016, pp.160, euro 17.
Recensione di Roberto Tomei
L’ultima fatica del prolifico autore di Erto che qui si presenta è un romanzo per tutti, ma adatto soprattutto ai giovani, ai quali mi sembra abbia molto da insegnare.
Sullo sfondo, che sappiamo essergli caro, di quella che possiamo definire la sua epica della montagna, Corona narra qui la storia di un uomo tanto ricco quanto annoiato (i ricchi, si sa, si annoiano spesso), che “aveva capito sin da piccolo che la durata emotiva degli oggetti era molto corta”. Purtroppo per lui, avendo continuato ad avere sempre tutto dalla vita – ville, automobili, ma anche amici, donne e salute – era irrimediabilmente destinato a non essere mai abbandonato dalla noia.
Avvenne così che questo giovane di buona famiglia, di professione ingegnere, un bel giorno decise di mollare tutto e di trasferirsi per sempre in una baita in montagna, lasciando, dato che ormai non la sopportava più, la società “caotica e confusa, frenetica e feroce” in cui, fino a quel momento, aveva vissuto con la sua famiglia, che lì per lì rimase smarrita nell’ascoltare il suo fermo proponimento di ritirarsi dal mondo, ma poi comprese e accettò la sua scelta, che del resto egli seppe ben giustificare.
Tra i tanti motivi, per un verso o per l’altro condivisibili, egli ne indicò uno che gli parve assorbente, cioè il suo amore per il sole, un amore che aveva provato sin da bambino, quando con la sua famiglia andava a villeggiare in montagna, per tre mesi nascosto in una valle remota, dentro un piccolo albergo circondato dal prato.
Andare in montagna significava così ritornare dal suo amico Sole, che sulla montagna durava di più, perché tramontava più tardi che a fondovalle. Sennonché, una volta tra i monti, dove finalmente poteva dedicarsi a contemplare la sua “palla infuocata”, egli si accorse che le ore di sole non gli bastavano più. Seguendo la via dell’astro che tanto gli era caro, si avvide così che la sua uscita era ritardata a levante da una vetta e che, dalla parte opposta, un altro picco ne anticipava la scomparsa.
Ma lungi dall’accettarlo come un fatto naturale, così come farebbe ognuno di noi, la constatazione di quel fenomeno lo fece precipitare in uno stato di rabbia insensata, che decise di sfogare in modo assurdo, in quanto, grazie ai suoi potenti mezzi, cominciò a far “decapitare” tutte le cime che circondavano la sua baita, pur di godere di qualche minuto in più della vista del sole.
Ne venne fuori uno scempio tanto irragionevole quanto colossale: “montagne spuntate come vecchie matite, picchi decapitati, becchi senza curve, corpi senza spalle”. Era riuscito a distruggere tutto intorno a sé, dimenticando la lezione che una vecchia guida gli aveva impartito da bambino (“le montagne stanno bene dove sono e come sono”), vale a dire che l’uomo deve rispettare la natura, di cui è parte, senza cedere a pulsioni irrazionali, come invece aveva fatto lui, da uomo ricco e viziato quale era, finendo così per perdere anche se stesso.
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