La schiavitù del capitale di Luciano Canfora, Editore Il Mulino, Bologna, 2016, pp. 111, euro 12.
Recensione di Roberto Tomei
Tutti ricordano, per la gran diffusione che ebbe in tutto il mondo e anche nel nostro paese, il libro di Fukuyama sulla fine della storia. Ebbene Canfora ci dimostra in questa sua ultima fatica che la storia non ha né può avere mai fine, ma conosce solo “tornanti”, che, oltre a essere l’esito di movimenti quasi sempre caotici e disordinati, per di più non preludono necessariamente a un reale progresso. Nondimeno, egli riconosce che dai grandi conflitti del Novecento il capitalismo è uscito vincitore, con tutte le conseguenze che sono sotto i nostri occhi, anche se non sempre ne abbiamo chiara consapevolezza.
Con l’acutezza e la grande capacità di sintesi che lo contraddistinguono, Canfora ci spiega così come, avendo conquistato anche la Russia e la Cina, il capitalismo abbia ormai espugnato la gran parte del pianeta, spegnendo anche quegli aneliti di libertà e uguaglianza che si erano affacciati alla ribalta della storia con l’avvento del processo di decolonizzazione, e giungendo sino al punto di armare il peggiore fondamentalismo islamico, delle cui” imprese” sempre più eclatanti siamo quotidiani spettatori.
Secondo l’autore, trionfo del capitalismo significa: 1) che esso ora ha “dalla sua la cultura e ogni possibile risorsa, mentre gli sfruttati sono dispersi e divisi”; 2) che per funzionare, secondo la sua logica, esso “ha ripristinato ormai forme di dipendenza schiavile” un po’ dappertutto; 3) che questo “fa regredire i diritti del lavoro” conquistati nel secolo passato; 4) che “per gestire questa impressionante mescolanza tra varie forme di dipendenza incluse quelle schiavili e semischiavili, il contributo della grande malavita organizzata è fondamentale”.
Al riguardo, illuminante è la decifrazione, in questo grande gioco, del ruolo (in apparenza di salvatore, in realtà di despota) degli Usa, sempre svolto, dalla fine del primo conflitto mondiale sino ai giorni nostri, con l’obiettivo di rovinare l’Europa e di colonizzarla.
Dopo aver dimostrato (in pagine che mi ricordano Chabod) come l’Occidente sia sempre stato un concetto tutt’altro che unitario, Canfora spiega come al tempo nostro resistano comunque due “utopie tra loro molto distanti ma entrambe in difficoltà: l’utopia della fratellanza e l’utopia dell’egoismo”, incarnata la seconda dall’Unione europea, la prima da chi non ha più patria “e che non di rado non l’ha perché la miope pulsione imperiale del mondo libero gliel’ha disfatta”. In ineludibile collisione, quale esito del ciclone guerre/migrazioni, le due utopie sono, come detto poc’anzi, entrambe in difficoltà: l’Unione europea rappresenta bene ormai solo un fortilizio monetario, per difendere il quale si chiudono le frontiere e si regalano miliardi alla dittatura turca; sul versante dell’altra utopia, quella della fratellanza, le forze per attuarla si rivelano parimenti poche e disperse.
Ma, conclude Canfora citando Tocqueville, se la libertà è un ideale intermittente, ”l’uguaglianza, invece, è una necessità che si ripresenta continuamente come la fame”. Dovremmo tenerlo presente tutti, ma soprattutto chi pensa di poter governare il movimento della storia.
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