Il datore di lavoro viene a conoscenza di presunti comportamenti di un dipendente censurabili in sede disciplinare ma la contestazione, anziché essere mossa nei termini stabiliti dalla legge 300/70 e dal ccnl di settore, viene formalizzata quasi un anno dopo, con conseguente licenziamento dello stesso dipendente.
Inevitabile l’azione giudiziaria da parte del lavoratore che, dopo essere stato sconfitto in primo grado, è risultato vittorioso sia in Appello che innanzi alla Cassazione, adita da parte datoriale.
La Suprema Corte, con sentenza n. 23177/2017 (Pres. Napoletano, Rel. De Gregorio), nel respingere il gravame, proprio a motivo della tardività della contestazione, ha sottolineato, richiamando una precedente sentenza della stessa Corte, che “ove sussista un rilevante intervallo temporale (nel caso di specie, poco meno di un anno, ndr) tra i fatti contestati e l'esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, la cui prova è a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere autonomo ed autosufficiente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento penale, considerata l'autonomia tra i due procedimenti …”.
Il differimento dell'incolpazione – aggiunge la Corte, richiamando un’altra sentenza – è giustificato soltanto dalla necessità, per il datore di lavoro, di acquisire conoscenza della riferibilità dei fatti, nelle linee essenziali, al lavoratore e non anche dall'integrale accertamento degli stessi.
Il principio della necessaria immediatezza della contestazione disciplinare – sottolineano i giudici - ha lo scopo di garantire il diritto di difesa del lavoratore e di non protrarre l'incertezza sulla sorte del rapporto di lavoro.
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