Nell’antico dibattito tra chi sostiene che esista una propensione biologica innata a riconoscere i volti e chi invece è convinto che si tratti di una capacità che si apprende con l’esperienza e con l’esposizione alle facce, si inserisce un recentissimo studi,o condotto da un gruppo di ricerca del Centro interdipartimentale Mente e Cervello (Cimec) dell’Università di Trento, presso il Laboratorio di cognizione animale e neuroscienze diretto dal professor Giorgio Vallortigara, pubblicato sulla rivista scientifca Pnas.
I ricercatori del Cimec hanno individuato, in pulcini di una settimana di vita che non sono mai stati esposti a volti, una popolazione di neuroni che rispondono a uno stimolo visivo simile a un viso, comprendente tre puntini che ricordano due occhi e un becco (o una bocca). Gli stessi animali non rispondono invece a tratti facciali isolati o a punti disposti in modo disordinato. I risultati suggeriscono che il riconoscimento dei volti è quindi innato.
Gli esperimenti hanno dimostrato che i neonati pennuti messi di fronte a forme che assomigliano a delle facce schematizzate reagiscono con una sensitività specifica. La risposta registrata è stata a livello di singoli neuroni e in una precisa regione cerebrale che si chiama 'nidopallio caudolaterale' ed è considerata un equivalente aviario della corteccia prefrontale dei mammiferi.
«Abbiamo fatto – dichiara il professor Vallortigara – tutta una serie di controlli utilizzando faccine schematiche in cui i puntini sono stati rovesciati, cambiati, disposti in tutte le combinazioni possibili. E questi neuroni sembrano rispondere proprio soltanto alle facce. Il che suggerisce che questa sensibilità ai volti è probabilmente innata nel cervello dei vertebrati».
Un altro aspetto interessante della ricerca riguarda la funzione di questa sensibilità, che spiega ad esempio, perché a volte ci sembra di vedere dei volti nelle nuvole o nelle macchie sui muri, il fenomeno cosiddetto della “pareidolia”.
«Questo processo psicologico – dice Vallortigara – è il risultato di un meccanismo cerebrale naturale. È come se i nostri cervelli fossero dei diapason predisposti a essere sensibili a questa semplicissima configurazione di punti posti nelle posizioni giuste. Si tratta di stimoli che in natura non esistono. Nel mondo non ci sono faccine schematiche, però queste faccine platoniche sono il modo più economico per i cervelli di rappresentare qualcosa che assomigli a una faccia. Quindi un neonato o un pulcino appena nato sarà attratto da questi stimoli costituiti da tre macchiette scure disposte a triangolo rovesciato e così potrà imparare, col tempo, le caratteristiche specifiche della faccia della mamma e distinguerle da quelle di un estraneo. Questi neuroni agiscono come una sorta di face detector, dei meccanismi che favoriscono l’apprendimento su una particolare categoria di stimoli, importanti dal punto di vista della vita sociale».
Lo studio suggerisce che l’apprendimento non sarebbe possibile se non fosse sostenuto da un sistema di predisposizioni innate. Secondo gli autori della ricerca, imparare partendo da zero, attraverso prove ed errori, sarebbe infatti troppo dispendioso e il rischio di sbagliare elevato.
La ricerca, primo firmatario Dmitry Kobylkov, con cui hanno lavorato Orsola Rosa-Salva e Mirko Zanon, sotto il coordinamento del professor Giorgio Vallortigara, è stata finanziata con fondi europei stanziati per l’Erc Advanced grant Spanumbra dello stesso professor Vallortigara.