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Venerdì, 03 Mag 2024

SMETTI E VINCII dati parlano chiaro. Solo nell’anno appena trascorso gli italiani hanno speso più di 88 miliardi in giochi.

L’uomo si definisce sapiens, di sicuro è ludens. Così il nostro Stato, dopo avere per oltre un secolo concepito il gioco d’azzardo come un fenomeno pericoloso per l’ordine sociale, la legalità e le finanze pubbliche, nel 1992 decide di trasformare l’azzardo legale in una leva fiscale, iniziando quel percorso che porterà all’assai discutibile risultato di impoverire milioni di italiani, arricchendo soltanto l’industria del gioco.

Lì per lì lo scopo di aumentare le entrate tributarie viene però conseguito, anche se a spese dei ceti più deboli, dato che per il gioco ha sempre speso di più, in relazione al reddito, chi ha di meno. Il gioco pubblico cessa di essere uno strumento di politica fiscale nel 2003, allorché si dà vita a una capillare diffusione dei giochi, fuori dalle tradizionali coordinate spazio-temporali.

Avviene così che, mentre da un lato continua a celebrare la bontà delle privatizzazioni, lo Stato diventa dall’altro interventista nel settore dell’azzardo, dove la sua azione è determinante nel far sorgere e sviluppare quella che ormai è nota come “l’economia dei giochi”.

Da questo momento, la spesa destinata al gioco registra un incremento pressoché costante, con qualche trascurabile battuta d’arresto, fino a giungere all’esito che si è detto all’inizio. Nel frattempo, la dematerializzazione dell’azzardo, con l’ascesa del gioco da terminale remoto (fisso o mobile che sia), ha eliminato le frontiere sia fisiche che legali.

Come la new economy della rete, la virtualizzazione dell’azzardo, infatti, riesce a eludere il controllo fiscale dello Stato, dato che i tavoli verdi virtuali sono gestiti da server nei paradisi fiscali. I trucchi cibernetici aggirano così la concessione, poiché - occorre non dimenticarlo - l’offerta in pubblico di “gioco di alea con posta in denaro”, vale a dire di gioco d’azzardo, può avvenire solo su concessione, come stanno ora fortunatamente “riscoprendo” Corte costituzionale, Cassazione e Consiglio di Stato. Oggi come ieri, infatti, non può che essere lo Stato a “sorvegliare” il commercio di un rischio così grande per la salute e il reddito dei cittadini, oltre che per le connesse implicazioni di politica criminale.

Se ci si chiede a chi giovi questa economia dei giochi, la risposta è facile: soltanto ai padroni del gioco, poiché col gioco, soprattutto quando diventa un’abitudine fino a sconfinare nella patologia, diventano tutti più poveri.

Il dato sconcertante, ma che deve far riflettere, è che ogni anno vengano investiti oltre 25 milioni di euro, soprattutto in tv, per promuovere l’azzardo di Stato. Già nello scorso anno, però, sono insorte le Associazioni No Slot, che hanno chiesto il divieto assoluto di pubblicità dell’azzardo. Da parte di queste associazioni è venuta, inoltre, una netta contrarietà al finanziamento del sociale col denaro derivante da questo business.

Anche qualche comune ha opposto resistenza: quello di Milano, con un’apposita ordinanza, ha introdotto limiti d’orario per l’attività di sale gioco e scommesse, oltre che per il funzionamento delle “macchinette” installate nei locali; dal 1° gennaio scorso, Anacapri  è il primo comune italiano completamente ”deslottizzato”.

Di certo, qualcosa comincia a muoversi, visto che la legge di Stabilità 2016 ha introdotto, nel rispetto dei principi sanciti in sede europea, il divieto di pubblicità dalle 7 alle 22 per trasmissioni televisive e radiofoniche generaliste.

Un passo importante, che potrebbe preludere al divieto totale.

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