Corruzioni. Le «Note azzurre» manipolate da Giorgio Dell'Arti, Editore Clichy, Firenze, 2015, pp.292, euro 12,90.
Recensione di Roberto Tomei
Soprattutto tra chi è più avanti negli anni, è difficile trovare qualcuno che non pensi che “prima” si stava meglio, dove “prima” sta a indicare una sorta di mitica età dell’oro, in cui il mondo girava quasi alla perfezione.
Basta scambiare quattro chiacchiere in giro, per rendersi conto che quasi tutti pensano che la Prima Repubblica sia stata migliore della Seconda, cioè l’attuale, mentre non è infrequente trovare (spesso tra quelli che non l’hanno vissuto in prima persona) chi rimpiange addirittura il Ventennio.
A smentire simili credenze ci ha pensato ora l’autore del simpatico libro che qui si presenta, corredato da una preziosa nota introduttiva di Alberto Arbasino. Come recita il sottotitolo, il volume è una manipolazione, compiuta dall’autore, delle “Note Azzurre” di Carlo Alberto Pisani Dossi, densa cronaca di un quarantennio della nostra vita nazionale, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Proprio scorrendo queste “Note”, emerge nitidamente una sostanziale quanto impressionante “continuità” del nostro presente col passato narrato da Dossi. Questi, infatti, ci spiega, con dovizia di particolari, che la “politica” di allora non era poi così diversa dall’attuale.
A cominciare dal personale politico, Dossi racconta che esso non era culturalmente provveduto, con la differenza, rispetto ai giorni nostri, che la Destra se la cavava meglio della Sinistra, che oggi (ma ormai da almeno quarant’anni) passa per essere intellettualmente più robusta dei suoi avversari.
Ma anche in tema di malgoverno, Dossi, sempre prodigo di particolari che farebbero invidia ai nostri rotocalchi, ci parla diffusamente, tra gli altri, di un personaggio, peraltro ministro di vari esecutivi e perfino presidente del consiglio, che usava farsi pagare la stessa missione all’estero da due o tre ministeri, ogni volta acquistando le cose più impensate: orologi, abiti, ombrelli per sé e per “tutti quelli di casa”. Per non parlare delle forti diarie, “e con tutto ciò lascia la nota dell’albergo a carico dello Stato”.
Persino in tema di “bunga bunga” forse non siamo all’altezza dei nostri predecessori, se prendiamo a riferimento le performance sul materasso di Vittorio Emanuele II, il cui budget “segnava nella rubrica delle donne circa un milione e mezzo di lire all’anno”, mentre per il cibo risultavano “non più di 600 lirette al mese”. Una sproporzione impressionante.
Insomma, niente di nuovo sotto il “cielo romano”.