Il caso Spotlight, di Tom McCarthy, con Rachel McAdams, Mark Ruffalo, Michael Keaton, Stanley Tucci, Liev Schreiber, Billy Crudup, John Slattery, Len Cariou, Jamey Sheridan, durata 128’, nelle sale dal 18 febbraio 2016, distribuito da BIM.
Recensione di Luca Marchetti
Nonostante il titolo fuorviante (Spotlight è il nome del team investigativo del Boston Globe, non dell’inchiesta giornalistica), arriva nelle sale italiane Il Caso Spotlight, ultima pellicola liberal del regista indipendente Tom McCarthy.
Guardando chiaramente ad alcune perle della New Hollywood (e il riferimento a Tutti gli uomini del presidente di Pakula è evidente), McCarthy porta sullo schermo uno splendido esempio di etica giornalistica e di cinema civile.
Il film racconta l’indagine (premiata con un Pulitzer) fatta da un gruppo di giornalisti di Boston su 89 episodi di pedofilia nella Chiesa Cattolica americana. La serie di articoli portò a un vero terremoto internazionale e alle dimissioni dell’arcivescovo di Boston, Bernard Francis Law, da anni impegnato a occultare le accuse.
La pellicola, piuttosto che le conseguenze processuali dell’inchiesta, segue il lento lavoro di indagine del team di cronisti, i veri protagonisti della Storia. Come fatto brillantemente dallo splendido Zodiac di David Fincher, il cuore dell’opera non è la quest, l’oggetto da indagare (in Fincher, il serial killer, qui i sacerdoti colpevoli) ma la vita e il lavoro di giornalisti normali, alle prese con ostacoli istituzionali, riunioni di redazione, informatori reticenti e documenti da rintracciare e analizzare. Chi è abituato all’immagine comune di un giornalismo superficiale, fazioso e approssimativo, non può che rimanere affascinato da questi eroi dell’informazione, coerenti e decisi fino all’abnegazione.
Il team Spotlight, non a caso, ha i volti di grandi attori, incredibilmente in parte: i sempre ottimi Michael Keaton (già cronista d’assalto per Ron Howard) e Mark Ruffalo, la sorprendente Rachel McAdams, il compassato John Slattery e i determinanti Liev Schreiber e Stanley Tucci.
Il caso Spotlight è, dunque, un film di personaggi e di attori, basato completamente sulla recitazione e sulla parola, dove è possibile gustarsi a pieno le sottigliezze della sceneggiatura (la cura con cui sono caratterizzati in poche battute tutti i protagonisti, con caratteri e background definiti) e i virtuosismi delle interpretazioni (i tic di Tucci, la flemma di Schreiber, le posture ostentate di Ruffalo).
Con un ritmo consapevolmente misurato, lontano dalla retorica commerciale dei colpi di scena artificiosi e dei picchi strumentali di suspense, Tom McCarthy realizza la sua opera più ambiziosa (vincitrice di diversi premi e segnalata con 6 nomination agli Oscar, tra cui Miglior Film). La sua pellicola, nell’ostentare le ombre ipocrite della società statunitense, desidera elogiarne la consapevolezza eroica, la determinata ricerca della realtà, in un continuo omaggio alla grandiosità morale made in U.S.A.
Probabilmente, Il caso Spotlight, troppo impegnato sulla costruzione “giusta” della propria impalcatura cinematografica, perde di vista il senso della propria storia. La decisione dello script di fermarsi un attimo prima dell’esplosione mondiale dello scandalo, infatti, è comprensibile da un punto di vista narrativo, ma il racconto avrebbe meritato un altro epilogo.
Ciò nonostante il film di McCarthy, in un oceano commerciale di pellicole senza anima, ha il coraggio di portare in sé un messaggio e un esempio cinematografico decisivi.