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Domenica, 19 Mag 2024

colonna infame 3Storia della colonna infame, di Alessandro Manzoni, edizioni Feltrinelli, Milano, 2015, pp.121 euro 7.

Recensione di Roberto Tomei

Inizialmente pensata come un capitolo dei Promessi Sposi, poi giudicata troppo ampio e, dunque, da trattare “con l’estensione che merita”, la Storia della colonna infame, scritta nel 1829, viene pubblicata in appendice all’edizione definitiva del romanzo, quella del 1840-42, con le incisioni del Gonin.

I lettori, che si attendevano un altro romanzo storico, rimasero delusi, poiché si trovarono di fronte a un’opera di carattere critico e giuridico, in cui si esprimevano le inclinazioni storiografiche dell’autore.

La vicenda raccontata da Manzoni è nota. E’, in sostanza, la cronaca del processo ai presunti untori della peste del 1630, tra cui Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza. La colonna infame è quella che fu costruita nel luogo in cui sorgeva la casa del Mora (che fu demolita), con una iscrizione che avrebbe dovuto tramandare ai posteri la colpa e la condanna degli untori, testimoniando l’infamia del barbiere Mora.

Secondo il Manzoni, invece, la colonna tramandò non l’infamia degli untori ma quella dei giudici, per l’abuso di potere da essi compiuto, ancorché spinti dalla paura provocata dall’epidemia.

Pare che la “caccia all’untore” non sia stata una particolarità di quel tempo, dato che già durante la peste nera del 1348 diverse migliaia di ebrei erano stati uccisi con l’accusa di avvelenare le fonti d’acqua con delle “polveri”. Al riguardo, perciò, c’è stato anche chi ha giudicato il Manzoni critico troppo severo, invocando l’ignoranza dei tempi, che avrebbe ampiamente giustificato un processo come quello descritto dall’autore.

Sia Verri che Manzoni rimasero inorriditi del male consumato prima e dopo la condanna capitale, con la differenza, però, che il primo l’attribuì appunto all’oscurità dei tempi e alle terribili istituzioni dell’epoca, mentre Manzoni concentrò la sua attenzione sulla responsabilità dei giudici. Per il Nostro, infatti, fu un male che uomini, non ignoranti ma colti, chiamati ad esercitare la giustizia, sapessero usare la tortura ma non volessero combattere l’ignoranza, finendo con l’essere palesemente e gravemente ingiusti. Non è, dunque, un problema di leggi, fermo restando che l’abolizione della tortura, all’epoca proposta da Maria Teresa d’Austria e contrastata dal Senato di Milano, era da considerare comunque un fatto positivo.

Quel che conta qui è il fattore umano, la convinzione che leggi migliori non preservano dal male, perché questo viene dagli uomini, che all’occorrenza sanno farsi, come diceva Sciascia, “burocrati del male”.

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