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Domenica, 19 Mag 2024

Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore universitario di Stefano Pivato, editore Donzelli, Roma, 2015, pp.119, euro 17.

Recensione di Roberto Tomei

Come esplicitato nel sottotitolo, il libro contiene una analisi  tanto puntuale quanto critica della fenomenologia del professore universitario, tema in Italia assai negletto. Come sottolinea l’autore stesso, infatti, “in una comparazione tra la produzione letteraria e cinematografica, ciò che più colpisce è la scarsa considerazione dei titoli italiani per la vita universitaria”, di contro al largo interesse che questa riceve negli altri paesi europei e negli Stati Uniti.

Sta di fatto che il disinteresse favorisce il già fin troppo forte senso di separatezza del mondo universitario. Una realtà variamente percepita, stante che, vista dal di fuori, per l’uomo della strada continua a essere il tempio del sapere, cui guardare con deferenza e soggezione, mentre non gode di eguale prestigio presso il mondo della politica e quello della finanza, settori per i quali il sapere sembra avere un peso residuale nella crescita civile del paese. Settori che, comunque, proprio in virtù di questo atteggiamento, ”hanno, con ogni evidenza, non poche responsabilità sullo stato di degrado e sofferenza in cui versa l’università italiana”.

Tornando alla “tribù universitaria”, l’autore ne mette in evidenza, stigmatizzandoli, certi comportamenti tipici, come: l’egocentrismo, nel senso che i professori non partono mai dai problemi universitari, ma dai loro problemi; la vanità, propria di coloro che magari hanno pubblicato presso un anonimo stampatore, ma sono pronti a dire che il loro libro è giunto alla terza o quarta edizione; la litigiosità, dai risvolti talora infantili, praticata spesso da chi latita l’istituzione come forma per certificare la propria presenza; la chiacchiera, in pochi ambienti l’insinuazione maliziosa, riveste un ruolo così di peso come in quello universitario, in cui non è rilevante che sia vero quel che si propaga, ma che la gente ci creda.

Il libro seguita poi a illustrare con doviziosa ma garbata ironia riti e linguaggi della tribù accademica, descrivendo l’eccitazione dei professori (specie di quelli che contano) in occasione dei concorsi (che però vanno sempre diminuendo), la loro particolare percezione della dimensione temporale e di quella spaziale e il loro singolare modo di sentirsi pubblici dipendenti, in un contesto in cui su ogni regola prevalgono le consuetudini formatesi nell’ambiente, dove vale la pena di ricordare che l’Accademia è la più antica fra le istituzioni, dopo la Chiesa.

Dopo aver fatto un quadro storico-comparativo dell’attuale situazione della nostra università, l’autore, riprendendo un monito lanciato nel 2010 dal compianto Edmondo Berselli, invita i suoi colleghi a prendere atto dei cambiamenti intervenuti, mutando atteggiamento, per cercare di fare il meglio possibile “con i soldi che ci sono”, ricordando che c’è, nonostante tutto, “una parte di università, che riesce, in maniera spesso miracolistica, a produrre prodotti di ricerca originali, a formare cervelli corteggiati e invidiati dalle università straniere, a preparare in maniera adeguata gli studenti motivati e a fornire a tutti il diritto alla conoscenza”. E’ questa l’università che giustamente va salvaguardata.

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