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Martedì, 23 Apr 2024

I Beati Paoli, di Luigi Natoli, prefazione di Maurizio Barbato, 2 voll., Editore Sellerio, Palermo, 2016, pp.1255, euro 25.

Recensione di Roberto Tomei

De I Beati Paoli sapevo soltanto quel che aveva riferito Leonardo Sciascia nei suoi libri, in cui più volte accenna a questa associazione segreta come a una sorta di progenitrice della mafia. Non ricordavo altro, ma, essendomi rimasta la curiosità di saperne di più, ho accolto con piacere l’iniziativa dell’editore Sellerio di ristampare, con l’eccellente prefazione di Maurizio Barbato, il romanzo di Luigi Natoli ad essi dedicato, pubblicato per la prima volta a puntate sul Giornale di Sicilia tra il maggio del 1909 e il gennaio del 1910.

Al di là della storia che vi si narra -  ossia la tormentata vicenda di Blasco, che, come figlio perduto di un grande casato, cerca di riprendersi ciò di cui è stato usurpato da un potente malvagio ed è protetto nelle sue imprese da un’associazione segreta – il romanzo è un potente affresco del Settecento siciliano, che meglio non avrebbe potuto essere reso, tra sontuosi palazzi barocchi, terribili e accettate povertà, chiostri imponenti e silenziosi. Si tratta delle vicende della Sicilia tra il 1698 e il 1719, anni in cui nell’isola si susseguono ben quattro dinastie, spagnoli, savoiardi, di nuovo spagnoli e austriaci, una delle epoche di più gravi contrasti di idee e di principi. Soprattutto un tempo di prospettive di rinnovamento deluse.

Natoli, con la sua opera, in particolare innalzava a epopea letteraria un’antica leggenda del popolo siciliano, cioè il mito di una società segreta a protezione degli oppressi, quella appunto della tenebrosa setta dei Beati Paoli e del suo spietato tribunale. Fu così che il libro calamitò sin dal suo primo apparire l’universale interesse: non solo del popolo (almeno di quello che sapeva leggere) ma anche del ceto medio e finanche dei borghesi, ottenendo uno straordinario successo, dovuto all’argomento trattato e al sapiente intreccio con cui venne svolto, ma anche allo stile narrativo dell’autore, una scrittura giudicata da Camilleri più moderna del contenuto del libro stesso.

Sta di fatto che per lungo tempo la fama del romanzo non riuscì però a varcare i confini dell’isola. Determinante per la sua “fortuna” al di fuori della Sicilia fu, infatti, l’edizione Flaccovio del 1971, con l’introduzione di Umberto Eco e una nota di Rosario La Duca.

Con il semiologo che nega recisamente che Natoli abbia scritto un romanzo storico bensì un romanzo popolare, a sfondo consolatorio, con immagini di giustizia volte a far dimenticare l’ingiustizia della realtà, laddove il secondo insiste sul carattere storico dell’opera, di cui il vero protagonista non è l’avventuroso eroe della vicenda, ma il Settecento siciliano come quadro di un’epoca.

Ma la nota di La Duca è interessante in quanto si spinge a toccare anche due importanti e controverse questioni: la prima è che, a suo parere, la setta dei Beati Paoli “sicuramente esistette”; la seconda riguarda il rapporto tra essa e la mafia, intesa come società segreta, che lo storico esclude, viste le origini molto più tarde di quest’ultima, pur potendosi “ammettere che nella setta dei Beati Paoli ci sia stata la presenza del sentimento mafioso”.

Se si tratti di romanzo popolare o di romanzo storico (come dice il sottotitolo), in fin dei conti poco importa. Certamente siamo di fronte a un grande romanzo italiano, un monumento della nostra letteratura, proprio come I Promessi Sposi, I Viceré o La Storia di Elsa Morante.

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