The Hateful Eight, di Quentin Tarantino, con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Walton Goggins, Jennifer Jason Leigh, Tim Roth, Zoe Bell, Michael Madsen, Bruce Dern, Demian Bichir, Dana Gourrier, James Parks, Channing Tatum, durata 182’, nelle sale dal 4 febbraio 2016, distribuito da 01 Distribution.
Recensione di Luca Marchetti
Otto personaggi terrificanti e magnifici, una locanda al centro di un bianco nulla, un divertente e terribile viaggio nel sangue.
Con The Hateful Eight, il suo ottavo film, Quentin Tarantino torna al suo amore più grande, il western. Dopo il successo di Django Unchained, crea un’opera che estremizza fino al virtuosismo (fine a se stesso?) la sua logorroica e sfaccettata poetica.
Con un occhio ai classici del genere (da Leone a John Ford, passando per Hawks, Corbucci e Peckinpah), al giallo di Agata Christie e al Carpenter de La Cosa (tutti riferimenti cinematografici evidenti), Tarantino dà sfogo alla sua penna, costruendo un film interamente basato sulla ricchezza verbale dei dialoghi e sulla caratterizzazione divertita dei personaggi.
Gli otto “bastardi” che mette in scena sono probabilmente gli archetipi del suo cinema, non a caso interpretati da attori amici e sodali di altre avventure.
In questa pellicola, che arriva sul grande schermo giocando sulle sue sfumature teatrali e liriche (la colonna sonora di Morricone sembra più essere stata pensata per un Teatro dell’Opera che per una Multisala), il regista e sceneggiatore abbandona temporaneamente le sue derive pop-commerciali e post-moderne dei film precedenti per scrivere una storia totalmente figlia delle sue passioni, delle sue voglie e dei suoi bisogni artistici.
Tarantino è sempre stato un autore interessato a condividere il suo gusto cinematografico con il proprio pubblico, convinto di avere in se stesso il primo spettatore da conquistare. Mai come questa volta, però, l’aspetto “auto-referenziale” è così sfacciatamente manifesto e oscenamente affascinante.
Il gioco fra noi e il regista di Pulp Fiction è arrivato alla sua conclusione, dimostrandoci che, ormai, Tarantino e il suo cinema sono diventati parte integrante e fondamentale del nostro immaginario occidentale, che ci impedisce di allontanarcene anche solo per un attimo. Persino nelle sceneggiature meno riuscite, nei suoi film meno efficaci, ognuno di noi trova un legame attrattivo che ci costringe (e ci costringerà sempre) ad applaudire per ogni parola e ogni scena partorita da Tarantino, al di là dei suoi meriti effettivi.
Non sappiamo se The Hateful Eight sia davvero un capolavoro (come molti fan ci stanno gridando in questi giorni) o un divertissement che presto scivolerà nel “sopravvalutato” ma con tutti i suoi orgogliosi ed evidenti difetti, dal ritmo non sempre scorrevole alla riproposizione di alcuni meccanismi già visti più volte (Tim Roth che fa praticamente il personaggio Christoph Waltz). Il western verbale è una pellicola che segna a forza il nostro anno cinematografico (e probabilmente il decennio).
Merito è anche della direzione degli attori, specialità della casa Tarantino, che nobilita molti dei personaggi che si affannano nel (vero) carnage che è messo in scena su questo schermo/palco.
Se Kurt Russell e Samuel L. Jackson, volti chiave del cinema tarantiniano, sono come al solito maestosi in questi panni, i vari Roth, Madsen, Dern e Bichir portano a casa, senza strafare, la loro buona interpretazione.
Le sorprese più grandi, però, le troviamo nelle performance enormi di Jennifer Jason Leigh (non a caso candidata all’Oscar come miglior non protagonista) e Walton Goggins, sceriffo/sudista ambiguo e deliziosamente folle.
In definitiva, The Hateful Eight è l’ennesima dimostrazione che contro Tarantino, e il suo cinema, non si può fare più nulla.
Ha già vinto e per questo non resta che arrendersi alla sua dolce tirannia.