di Roberto Tomei
La norma prevista dall’art. 35, comma 2, del d.lgs. 165 del 2001 è chiara e sembra non ammettere deroghe.
Per poter bandire concorsi pubblici occorre apposita autorizzazione da parte della Presidenza del consiglio dei ministri. All’Istat, invece, tale norma sarebbe stata disattesa in occasione dei recenti concorsi per dirigenti di prima e seconda fascia, come rilevato anche da alcuni candidati che hanno adito il Tar del Lazio per contestare la legittimità delle operazioni concorsuali.
Per i giuristi dell’ente di statistica, invece, la norma sopra richiamata, valida per tutti, non si applicherebbe nel caso di specie. A loro avviso, infatti, il decreto del Presidente della Repubblica n. 166 del 2010 e il Dpcm 28 aprile 2011, “per contenuto, natura della fonte e soggetti che hanno concorso alla loro approvazione possono considerarsi del tutto equivalenti all’autorizzazione di cui all’art. 35, comma 4”.
In pratica, ci troveremmo di fronte a una sorta di disco verde implicito. Di tutt’altro avviso l’agguerrita difesa dei ricorrenti, che fa rilevare la non equiparabilità tra gli atti aventi finalità organizzatorie, quale è appunto il Dpr 166/2010 e l’autorizzazione a bandire, prevista dal citato articolo 35.
L’impossibilità di una qualsiasi “equivalenza” deriverebbe chiaramente dai diversi fini degli atti in questione, dato che l’autorizzazione de qua è strumentale ad accertare anche la compatibilità economica del concorso e degli effetti da questo spiegati, attraverso l’esatta previsione del numero di posti autorizzati da mettere a bando. Un controllo che non può essere svolto o addirittura ritenersi assorbito dal controllo di legittimità della Corte dei conti. Se l’operato dell’amministrazione Istat sia stato o meno disinvolto, epperciò illegittimo, sarà il Tar a stabilirlo.
Ma chiedere un’autorizzazione “esplicita”, non sarebbe stato meglio per tutti? Bah.