di Roberto Tomei
Il vento della privatizzazione ha fatto sì che anche in Italia si discuta dell'acqua, un bene del quale il nostro Paese, per fortuna, sembra essere abbastanza provvisto.
La globalizzazione sta infatti procedendo a una ridefinizione dell'acqua da bene pubblico a proprietà privata, con conseguente sua commerciabilità. Alla regolamentazione burocratica delle risorse idriche dovrebbero sostituirsi, secondo i sostenitori del libero commercio, i diritti di proprietà privata.
L'istituzione di un mercato di questo bene andrebbe così a rimuovere tutti i vincoli tradizionali e le normative sinora in vigore sull'uso dell'acqua.
Storicamente, è stato John Locke (Two Treatises on Government, 1690) a sostenere teorie e pratiche dirette a erodere i beni comuni (Commons) e a distruggere la terra.
A suo parere, chi mescola alla natura il suo lavoro, "vi unisce qualcosa che gli appartiene, facendone così sua proprietà". Questa viene creata, dunque, solo quando inerti risorse naturali vengono "trasformate dalla loro originaria forma spirituale grazie all'applicazione del lavoro".
L'attuale tendenza alla privatizzazione delle fonti d'acqua comuni affonda le sue radici nell'economia dei cowboy.
Fu infatti proprio nei campi minerari dell'America occidentale che il concetto da Far West di proprietà privata e il principio dell'appropriazione (chi è primo nel tempo è primo nel diritto) fecero la loro comparsa. Secondo la teoria dell'appropriazione, era la priorità a stabilire i diritti assoluti della proprietà, incluso il diritto di comprare e vendere acqua.
In pratica, i primi arrivati avevano il diritto esclusivo sull'acqua e chi veniva dopo poteva appropriarsene soltanto a condizione di onorare prima i diritti di priorità.
Considerati come i primi veri abitanti, a minatori e coloni erano riservati tutti i diritti di utilizzo delle fonti idriche. Di conseguenza, non si riconosceva alcuna posizione privilegiata ai proprietari ripari(=gli abitanti che per il loro sostentamento facevano capo a un dato fiume) e si concedeva a tutti gli utenti l'opportunità di competere per l'acqua e di svilupparsi lontano dai fiumi.
Naturalmente, anche se i diritti erano basati sulla priorità di occupazione, i nativi americani (= gli indiani dei nostri film) erano esclusi dai diritti di appropriazione dell'acqua. Fu così che in tutto il West iniziarono a imporsi e a diffondersi regimi d'uso diseguale e non sostenibile e un'agricoltura fondata sullo spreco dell'acqua.
La privatizzazione dell'acqua ha trovato, di recente, il proprio fondamento nel pensiero di Garrett Hardin (Tragedy of the Commons, 1968), secondo cui le proprietà comuni (come l'acqua) costituiscono sistemi non governati socialmente e ad accesso libero, come tali condannati all'illegalità.
A tale tesi si è replicato che i beni comuni sono regolati in maniera perfettamente efficace dalla comunità e che non sono affatto risorse ad accesso aperto.
E' la comunità, infatti, che stabilisce le regole e le restrizioni riguardo all'uso, applicando un concetto di proprietà non su base individuale ma a livello del gruppo, ispirato al principio della cooperazione e non a quello della competizione, l'unico possibile secondo Hardin.
1 - continua