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Mercoledì, 03 Lug 2024

di Roberto Badel

La concezione, di tradizione illuminista, di un'economia fondata sulla ricerca della comune felicità diventerà presto incompatibile con la natura intrinseca del capitalismo (la contraddizione tra produzione sociale e appropriazione privata della ricchezza), sempre più palesatasi fino ad arrivare alle sue odierne forme esasperate.

La scienza economica sarà così epurata da un contenuto presente alla sua nascita in un importante filone di ricerca. Ma è utile risalire al pensiero degli autori del passato?

Schumpeter affermava che i vantaggi "possono essere indicati in tre punti: vantaggi pedagogici, nuove idee, e cognizioni sui procedimenti della mente umana", e aggiungeva che "la mente di un uomo deve essere ben ottusa, se, volgendosi indietro oltre il lavoro del suo tempo […] non sente allargare il proprio orizzonte" (op. cit.).

Individuare il contesto storico in cui ha origine un pensiero consente di comprendere la reale portata di proposte che, oggi, in mancanza di un mutamento di indirizzo del modo di produzione esistente, palesano la loro appartenenza all'ambito della propaganda ideologica.

Così l'attuale recupero dell'idea di felicità in economia sembra dettato più che altro dall'esigenza di fornire sostegno al traballante consenso delle oligarchie dominanti.

Niente a che vedere con l'indirizzo di economia del benessere privilegiato dagli autori del '700, per i quali parlare di felicità aveva il senso di porre l'attenzione sul problema della distribuzione della ricchezza.

Giammaria Ortes, ad esempio, puntava il dito sul problema, tra l'altro attuale, delle eccessive differenze di retribuzione dei lavori: "mentre in natura un uomo, per capacità di mente, può superare un suo simile anche di dieci volte, le occupazioni esercitate dagli uni soglion poi superar per riputazione le esercitate da altri talvolta del centuplo e del milluplo, e valutarsi con una simile differenza di ricchezze e di beni" (Alcune lettere dall'autore dell'Economia nazionale scritte a diverse persone in proposito di detto suo libro, 1778).

Tra le situazioni di infelicità di un'epoca in cui era predominante il settore agricolo, Giambattista Vasco individuava quella dei "coltivatori delle terre altrui", "sicuramente i più infelici" in quanto "l'incertezza di trovare lavoro (poiché ciò dipende sempre dai possessori dei fondi )…una malattia che sopravvenga, una disgrazia di qualunque genere, basta per ridurre il contadino mercenario all'ultima miseria" (La felicità pubblica considerata nei coltivatori di terre proprie, 1769).

Lo stesso destino odierno, in un assetto produttivo diverso, dei lavoratori precari.

La predilezione per la piccola proprietà era molto diffusa nel '700, e la sua finalità era anche quella di rimettere in circolazione le terre immobilizzate dai vincoli feudali, insomma il capitale inattivo.

Il pensiero economico italiano, in un'epoca tra l'altro afflitta dalla piaga del pauperismo, era dunque imperniato su analisi che coniugavano le proposte di sviluppo economico con quelle indirizzate ad accrescere la "pubblica felicità".

Oggi, con la completa sussunzione dell'industria alla finanza, è il capitale finanziario che decide cosa e dove produrre in base alle sue esigenze di valorizzazione, e quindi indipendentemente dai reali bisogni dell'umanità.

E, in tale contesto, anche l'economia politica degrada al rango di supporto ideologico agli interessi dominanti.
2 - fine (puntata precedente sul n. 41)

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