di Biancamaria Gentili
La Repubblica italiana, non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Questa in estrema sintesi la motivazione della condanna inflitta all’Italia dalla Corte di giustizia europee con sentenza C312/11, Quarta sezione, pubblicata il 4 luglio 2013.
Che l’Italia non fosse in cima alla classifica dei paesi attenti alle problematiche, anche in materia di inserimento nel mondo del lavoro, dei diversamente abili, Il Foglietto lo aveva più volte fatto notare, da ultimo con un articolo del 28 maggio scorso, dal titolo “Stop assunzioni. Anche la pubblica amministrazione gira le spalle alle categorie protette”.
Per la Corte di giustizia europea l’Italia non fa abbastanza per aiutare i disabili a inserirsi nel mondo del lavoro e per questo è venuta meno ai propri impegni derivanti dal diritto dell’Unione.
Gli Stati comunitari – sottolinea la Corte - devono imporre a tutti i datori di lavoro l’adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili. La normativa italiana, invece, risulta insufficiente: non ha natura generale, prevede sì incentivi e convezioni con le autorità locali, ma non impone obblighi di portata generale, cogenti per tutte le aziende.
I giudici Ue aggiungono che sono necessari provvedimenti efficaci e pratici, che costringano ad esempio le imprese a sistemare i locali, adattare le attrezzature e ad assicurare a chi è diversamente abile un’organizzazione del lavoro che garantisca i ritmi di lavoro adeguati e una coerente ripartizione dei compiti. Senza dimenticare che il datore ha l’obbligo di assicurare la formazione anche ai portatori di handicap. E non si può dimenticarli o discriminarli nelle progressioni di carriera. Tutto questo finora l’Italia non l’ha fatto e, dunque, non resta che pagare.