Nelle scorse settimane, il governo ha annunciato urbi et orbi e non senza enfasi di voler assumere 140mila precari della scuola. Un’operazione senz’altro di grande impatto politico (anche elettorale, se le circostanze lo dovessero consentire), abilmente sbandierata come la fine del precariato.
Sennonché, quella che è stata descritta come la madre di tutte le stabilizzazioni sembrerebbe essere per il governo nient’altro che una strada obbligata, onde prima si corre ai ripari meglio è.
Ma andiamo con ordine.
Il punto di partenza è, infatti, la sentenza n.6232 del 2014 della Corte d’Appello di Napoli, che conferma la sentenza del Tribunale di Ariano Irpino in funzione di giudice del lavoro n.965 del 2011, con la quale era stato dichiarato il diritto dei ricorrenti, assunti tutti a tempo determinato, ad ottenere le differenze retributive maturate a seguito del calcolo degli scatti di anzianità maturati in costanza di rapporto di lavoro alle dipendenze del Ministero dell’Istruzione, che viene così condannato al pagamento delle predette differenze retributive, oltre agli interessi legali.
Secondo la Corte partenopea, che utilizza a sostegno delle proprie argomentazioni sentenze e ordinanze della Corte di giustizia europea, le modalità di selezione del personale docente non possono determinare differenziazioni di sorta, dato che sia i dipendenti di ruolo che quelli assunti a tempo determinato svolgono la stessa prestazione lavorativa; pertanto, anche nel caso degli scatti di anzianità, “la sussistenza di un diverso tipo di contratto di assunzione non giustifica la disparità di trattamento, che risulta, quindi, irragionevole”.
Tanto premesso, il prossimo 26 novembre presso la Corte di giustizia europea si deciderà la sorte dei precari della scuola con una sentenza che potrebbe determinare la stabilizzazione per oltre 140mila supplenti. Viste le conclusioni favorevoli ai lavoratori dell’avvocato generale di Lussemburgo, le premesse ci sono tutte.
Ora tutti sanno come stanno le cose. Anche il governo.