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Sabato, 04 Mag 2024

E così alla fine non aveva torto chi, quasi tre anni fa, preconizzava che le banche centrali rischiavano di rimetterci le penne a furia di spingere sul pedale dell’allentamento monetario. Laddove rimetterci le penne, per le banche centrali, non significa fallire, visto che queste entità non possono portare i libri in tribunale, ma peggio. Significa perdere la loro credibilità. E quindi venire percepite come non risolutive, se non addirittura dannose. Con la conseguenza che i poteri pubblici, ai quali le banche centrali si iscrivono di diritto e di fatto, rischiano di perdere la loro arma migliore, per non dire l’unica che finora è stata utilizzata, in difetto della volontà di utilizzarne altre, che sarebbero troppo dolorose anche solo da confessare.

Che il timore di tre anni fa sia diventato uno dei pericoli del nostro tempo, lo deduco scorrendo una breve allocuzione di Claudio Borio, capo del dipartimento monetario della Bis, rilasciata in occasione del recente quaterly review dell’istituto di Basilea. La perdita di fiducia nell’azione delle banche centrali è una delle “tre mine vaganti” che Borio intravede lungo la sofferta strada che dovrebbe condurci – e mai condizionale fu più d’obbligo – alla ricostruzione delle economie terremotate da una crisi che sembra essere trascorsa senza aver mutato di nulla il pensiero che ha contribuito a provocarla. Prendiamo il debito eccessivo: quest’ultimo, ormai riconosciuto come il detonatore dell’implosione finanziaria di sette anni fa, anziché diminuire, come avremmo dovuto aspettarci, è aumentato, spostandosi dal privato al pubblico, per quel poco che il privato è riuscito a diminuire, con la conseguenza che rispetto al 2007, quando il debito era inferiore al 200% del Pil globale, ora ci ritroviamo con un aggregato che supera il 250% e del quale non si intravede la fine.

La seconda mina vagante, che in qualche modo si collega alla prima, è il calo costante della produttività. Anche qui i dati Bis lasciano poco spazio all’immaginazione. La produttività media del primo lustro 2000-2005, messa a base 100, ora oscilla fra i 40 e i 60 a livello globale. “I boom del credito – spiega Borio – minano la crescita della produttività man mano che aumentano di vigore, prevalentemente perché destinano risorse ai settori sbagliati. L’impatto di queste allocazioni errate perdura nel tempo e si intensifica allo scoppio di una crisi finanziaria. A sua volta, una minore produttività rende più difficile sostenere gli oneri debitori. Per metterla in altri termini, quelli che vediamo potrebbero non essere fulmini isolati, bensì i segnali di una tempesta vicina, che si sta preparando da molto tempo”.

E così arriviamo alla terza mina vagante: “Le recenti turbolenze hanno mostrato chiaramente che le banche centrali, dopo la crisi, sono state gravate per un tempo troppo lungo di un fardello eccessivo, proprio nel momento in cui si sono ridotti gli spazi per politiche di bilancio e c’è stata carenza di misure strutturali. Malgrado condizioni monetarie eccezionalmente espansive, la crescita nelle giurisdizioni più importanti è stata deludente e l’inflazione è rimasta persistentemente bassa. Gli operatori di mercato ne hanno preso atto e la loro fiducia nei poteri curativi delle banche centrali – probabilmente per la prima volta – vacilla. Anche i policy maker farebbero bene a prenderne atto”.

Ci sarebbe poco altro da aggiungere. Vale la pena però notare come queste tre mine vaganti abbiano reso erratico quest’inizio d’anno. “L’ondata di vendite che ha inaugurato il 2016 è fra le peggiori mai osservate a inizio anno”, nota Borio. A parte la turbolenza provocata dai rallentamenti cinesi, Borio sottolinea un secondo episodio, quello di inizio febbraio, che ha visto le banche ipervendute con gli spread sui credit default swap allargarsi notevolmente. Una spiegazione possibile è che gli investitori “hanno venduto azioni bancarie e CDS per contenere le perdite sulle CoCo“, ossia le Contingent Convertible per le quali si era paventata, in alcune banche europee, una sospensione nel pagamento delle cedole.

“Tuttavia, l’elemento che più ha turbato gli investitori è lo scenario di un futuro di tassi di interesse ancora più bassi, ben oltre l’orizzonte, che potrebbero minare i margini, la redditività e la resilienza delle banche. L’apprensione è cresciuta e si è propagata in seguito alla decisione della Bank of Japan di adottare tassi ufficiali negativi. Nel punto di apice, sono stati negoziati a rendimenti negativi oltre 6.500 miliardi di dollari di titoli di Stato, estendendo ancora una volta ai confini dell’impensabile”.

In questo contesto, l’aumento del debito che nelle principali economie emergenti è stato il driver della crescita post 2008 “ha rappresentato l’elemento più allarmante”. E fra le varie categorie di debito in crescita, si segnala quella del debito nominato in valuta estera, raddoppiato dal 2009 e ormai a quota 3,3 trilioni di dollari per i Paesi emergenti. Sicché la Cina è stata costretta a rimborsarne una parte, e ciò spiega il calo delle sue riserve, mentre altri paesi emergenti si vedevano deprezzare il cambio e di conseguenza inasprirsi le condizioni di finanziamento esterno. Al contempo, il calo del petrolio - che il debito in qualche modo ha alimentato costringendo gli esportatori a mantenere inalterata la produzione per avere flussi di cassa sufficiente a pagare il servizio del debito - ha aggiunto altri elementi di criticità al quadro già deteriorato.

Tutto si tiene, alla fine. E capire come uscire da questo cul de sac è esercizio difficile, specie adesso che i grandi manovratori – le banche centrali – sembrano aver esaurito i loro spazi di manovra. Cosa resta da fare allora?

Nulla che piaccia.

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giornalista socioeconomico - Twitter @maitre_a_panZer

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