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Sabato, 20 Apr 2024

referendum costAi primi di luglio scorso, trattando dell’Italicum appena entrato in vigore, anticipammo la nostra posizione tutt’altro che favorevole al cambiamento della Costituzione del ’48, quindi il nostro NO al prossimo referendum costituzionale, sottolineando come, mentre nel dibattito pubblico ci si affannava a parlare solo di riforma del Senato, il restyling governativo della Carta coinvolgesse in realtà ben 47 articoli della stessa, tutti notevolmente peggiorati nella forma e nella sostanza.

Al riguardo, come evidenziato da Zagrebelsky, si impongono due premesse. La prima: a differenza di quanto previsto per il referendum abrogativo, per la cui validità si richiede la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto, per il referendum costituzionale non è stabilito alcun quorum. Quindi, perché la legge che vi è sottoposta possa, una volta pubblicata, entrare in vigore, è sufficiente la maggioranza dei voti validamente espressi. La seconda: nonostante che nel nostro sistema il referendum costituzionale abbia carattere oppositivo, nel senso che dovrebbe farvi ricorso chi non vuole la revisione della Costituzione, quello a cui stiamo per essere chiamati a votare riveste carattere confermativo, in quanto promosso dal governo per salvare la sua riforma, una vicenda analoga a quella cui assistemmo già nel 2001, con protagonista sempre il centrosinistra, che con un’esigua maggioranza aveva varato la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione.

Questa seconda premessa è importante, poiché mette in evidenza una grave anomalia di sistema, risultando in assoluto contrasto con la logica del costituzionalismo che sia lo stesso governo a decidere il “cambiamento”, modificandosi da solo i limiti al proprio potere, quei limiti che certamente non dovrebbero essere nella sua disponibilità.

Non vanno, poi, sottaciute le modalità seguite per approvare la riforma costituzionale. Proprio durante la sua discussione, hanno fatto la loro comparsa nel linguaggio parlamentare strani strumenti di riduzione degli spazi di discussione, come, accanto alla collaudata seduta-fiume, il “canguro” e la “tagliola”. Strumenti, tutti, volti ad accelerare un dibattito che, per la sua importanza, dovrebbe avere avuto invece tempi molto più ampi. Se, con la prima, il dibattito in aula è stato ridotto all’inverosimile, con il secondo si è operato l’accorpamento di tutti gli emendamenti simili ai fini del voto, evitando così di votare su ciascuno di essi. Da ultimo, si è adoperata la tagliola, cioè il contingentamento dei tempi di discussione riservati a ciascun gruppo, con la conseguenza che la maggior parte degli emendamenti è caduta senza poter essere nemmeno discussa.

All’esterno delle aule parlamentari si è assistito, invece, al continuo bombardamento, tuttora in atto, della propaganda contraria al bicameralismo perfetto, accusato di bloccare il parlamento, rendendolo incapace di decidere, mentre è vero il contrario, in quanto a essere lento è piuttosto il governo, che impiega anni a varare i regolamenti attuativi delle leggi approvate dal parlamento stesso, la cui produzione, statistiche alla mano, è in linea con quella dei parlamenti dei più grandi paesi d’Europa.

Entriamo ora nel merito della riforma. Come si è ripetuto più volte, mentre la Camera resta così com’è, ossia composta di 630 deputati, il Senato viene ridotto da 315 a 95 membri, oltre quelli nominati dal presidente della Repubblica, destinati a durare 7 anni e non più a vita. A partire dal 2022, poiché prima valgono norme transitorie, i senatori, eletti dai consigli regionali, saranno così ripartiti: 22 sindaci e 73 consiglieri regionali, ma per la disciplina particolare della loro elezione occorrerà attendere una legge bicamerale. Secondo il meccanismo previsto, è sicuro comunque che il Senato andrà incontro a rinnovi parziali, durando in carica i senatori tanto quanto il Consiglio regionale che li ha eletti. Un fatto, però, è certo: i senatori godranno di quella immunità che, in quanto sindaci o consiglieri regionali, non avrebbero. Dopo i tanti scandali che hanno investito i Consigli regionali, questo non sembra un buon viatico.

Ma la confusione più grande regna di sicuro sul punto della natura della rappresentanza senatoriale. La rappresentanza della Nazione resta, infatti, appannaggio soltanto dei deputati, mentre con formula equivoca la riforma dice che i senatori rappresentano le “istituzioni territoriali”. Ed invero, se questo si voleva, i senatori avrebbero dovuto essere nominati dagli esecutivi regionali, non dai legislativi; viceversa, se si voleva che operassero senza vincoli di mandato, stante che l’art.67 Cost. continua ad applicarsi anche a loro, non si vede come essi possano rappresentare le istituzioni territoriali.

Sotto il profilo funzionale, titolare del rapporto di fiducia col governo sarà solo la Camera, ma ottenere la fiducia, grazie all’Italicum che assegna 340 seggi al partito che prende più voti, non sarà più un problema. Questa stessa “addomesticata” maggioranza assoluta sarà naturalmente sempre pronta a votare anche l’indirizzo politico voluto dal premier, la cui determinazione, perciò, continua a essere riservata alla Camera solo a parole.

Ancorché non eletto ed estromesso dal rapporto di fiducia, il Senato continua però ad avere un ruolo nella revisione costituzionale, mentre caotica appare la situazione nella materia della legislazione ordinaria, dove, in ossequio alla sbandierata semplificazione, al posto di un solo procedimento legislativo, se passasse la riforma, ne avremmo addirittura dieci, per di più scanditi da un intreccio di rimandi mai visto in un testo costituzionale. Niente di paragonabile alla chiarezza dell’attuale art.70, che si limita a dire che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”.

Se arretra dappertutto, il Senato guadagna inspiegabilmente nelle elezioni dei giudici costituzionali, poiché, secondo la riforma, ne elegge due, mentre la Camera, con una composizione quasi sei volte più grande, soltanto tre. Quanto, infine, all’attribuzione della titolarità della funzione di raccordo tra le Regioni, lo Stato e l’Unione europea, visto il peso che essa avrebbe, ci sono forti perplessità che il governo se la faccia sfuggire, lasciandola al Senato riformato.

Agli strumenti di cui si è detto sopra, attraverso i quali è stato “influenzato” l’andamento dei lavori parlamentari, la riforma, nella sua opera di rafforzamento dell’esecutivo, ne ha ora aggiunto un altro, che trova un precedente solo nel periodo fascista: il cosiddetto voto a data certa, in virtù del quale il governo, salvo che in particolari materie, può chiedere alla Camera (quella “docile” partorita dall’Italicum) di riconoscere, entro 5 giorni, che un disegno di legge è ”essenziale per l’attuazione del programma di governo”, con la conseguenza che la Camera deve votarlo entro 70 giorni (prorogabili non più di 15) con un potere di emendamento contenuto, dovendo essere rispettata “l’omogeneità del testo”, mentre al Senato i tempi entro cui proporre modifiche sono ridotti della metà.

Dalla riforma escono “massacrate” anche le opposizioni parlamentari, laddove, viceversa, il potere della maggioranza (sempre quella che emerge dall’Italicum, ovviamente) si rafforza: per l’elezione del presidente della Repubblica che, al limite, potrebbe” nominare” da sola; nell’elezione di un terzo dei membri del Csm, per la quale vale lo stesso discorso; per la dichiarazione dello stato di guerra, che la riforma riserva alla sola Camera, che, con l’occasione, in base all’art.60 Cost., potrebbe con legge ordinaria (finora non è mai accaduto), prolungarsi la durata della legislatura e rinviare le elezioni; per l’approvazione, infine, della legge di amnistia e indulto, dove con appena 420 voti, dunque solo 80 in più di quelli garantiti dall’Italicum, potrebbe tranquillamente amnistiare i propri esponenti politici.

Con l’occasione, qualche “colpetto” viene assestato dalla riforma anche agli istituti di democrazia diretta, mediante l’innalzamento del numero delle firme da raccogliere, che è stato triplicato per l’iniziativa popolare (150mila anziché 50mila) e aumentato a 800mila (prima erano 500mila) per il referendum, affinché il quorum sia calcolato sulla metà più uno dei votanti alle ultime elezioni per la Camera.

Novità di rilievo sono introdotte dalla riforma anche nei rapporti tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, a tutto vantaggio del primo: da un lato, attraverso la clausola di “supremazia” statale, che permette allo Stato di approvare leggi anche nelle materie di competenza regionale, ove vi sia un interesse nazionale che lo giustifichi; dall’altro, attraverso una revisione della distribuzione delle competenze, in virtù di un aumento delle materie esclusive statali e l’eliminazione della competenza concorrente, in un quadro tutt’altro che chiaro, dunque foriero di un inevitabile contenzioso davanti alla Corte costituzionale.

E, sempre a livello statale, viene riportata anche la disciplina degli enti locali, così da escludere differenziazioni tra le regioni. Scompaiono, infine, le Province, anche se non del tutto, in quanto sostituite da una pluralità di “enti di area vasta”, con membri scelti tra gli eletti nei comuni (dunque, nemmeno qui ci fanno votare), aventi compiti di coordinamento delle funzioni che i comuni non riescono a disimpegnare da soli.

Senza pretesa di essere stati esaustivi, crediamo di aver illustrato i tratti salienti della revisione costituzionale oggetto del referendum autunnale, nella quale, come ognun vede, c’è in gioco molto più della riduzione del numero dei senatori, secondo il messaggio indirizzato alla “pancia” degli elettori. L’attacco, nemmeno troppo velato, è alla sovranità popolare e al diritto di voto, che dal passaggio della riforma uscirebbero sfigurati. Ci auguriamo, perciò, che i cittadini non vogliano ascoltare le “sirene” dei Sì, esprimendo il loro convinto No a una riforma che fa strame della nostra Costituzione. Che forse non sarà la più bella del mondo ma è decisamente meno peggio di quella che ci stanno apparecchiando.

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