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Giovedì, 28 Mar 2024

Lo scorso 23 novembre è stato presentato presso la Sala della Comunicazione del Miur, il Referto sul sistema universitario, redatto dalla Corte dei conti, a cura dei consiglieri Vincenzo Palomba, Luisa D’Evoli e Donatella Scandurra.

Si tratta di un documento di 149 pagine, suddiviso in otto capitoli (Considerazioni generali; La governance delle Università; Il nuovo sistema contabile; Profili finanziari; Il personale; Gli interventi per la didattica; Gli interventi per il diritto allo studio; Profili della ricerca universitaria), approvato nell’adunanza del 22 novembre 2017 delle Sezioni Riunite in sede di controllo, con il quale la Corte “intende offrire al Parlamento un quadro conoscitivo degli attuali profili finanziari e gestionali del sistema universitario in relazione alla raggiunta piena operatività della riforma, che vede, ad oggi, sostanzialmente completati i processi amministrativi e legislativi di attuazione” e fornisce un aggiornamento del referto pubblicato poco prima dell’entrata in vigore della legge stessa.

La Corte si propone, insomma, con questo suo Referto di “tirare un bilancio ... offrire al Parlamento un quadro conoscitivo degli attuali profili finanziari e gestionali del sistema universitario in relazione alla operatività della riforma”.

Un bilancio con più ombre che luci.

Se la riforma, nominalmente, è stata fatta in coerenza con il dettato dell'articolo 33 della Costituzione, che sancisce la libertà di insegnamento, il suo effetto è stato quello, da un lato, attraverso la leva finanziaria, di rafforzare l'accentramento delle decisioni in capo al governo e al Miur, in particolare, dall'altro, “la verticalizzazione dei processi a vantaggio della figura del Rettore rispetto al CdA che si riflette anche sul modo in cui può venire di fatto esercitato il ruolo di altre figure apicali. Quanto maggiore è, infatti, la capacità di indirizzo politico strategico del Rettore, tanto maggiore è la possibilità per il Direttore generale di svolgere una funzione di cerniera tra gli organi di governo e la struttura amministrativa”.

Anche la grande rivoluzione degli assetti organizzativi, che passava attraverso il taglio del numero dei dipartimenti, è mancata se, “l’analisi degli statuti ha evidenziato la riduzione di tali strutture, il cui numero, pur dimezzato, è rimasto superiore a quello delle vecchie Facoltà”... “Nei piccoli Atenei ciò si è tradotto di fatto nella trasformazione delle vecchie Facoltà in Dipartimenti, ovvero nella costituzione di nuove strutture organizzative intermedie (i nuovi Dipartimenti) di dimensione e numero simili alle vecchie Facoltà. Nei grandi Atenei si sono costituiti nuovi Dipartimenti in numero sensibilmente più elevato delle vecchie Facoltà. Così, mentre nei piccoli e medi Atenei l’effetto netto della riforma sugli assetti organizzativi interni è un’effettiva semplificazione, cioè una concentrazione delle decisioni in unità organizzative delle dimensioni delle vecchie Facoltà, nei grandi Atenei la concentrazione delle decisioni è accompagnata da una polverizzazione delle unità organizzative”.

Dal punto di vista contabile, l’introduzione del bilancio unico e il passaggio alla contabilità economico-patrimoniale, che avrebbe dovuto permettere di superare la pluralità delle scritture contabili fino ad oggi tenute dagli Atenei - pur salvaguardando l’autonomia dei Dipartimenti, doveva configurare gli stessi non più come centri autonomi di spesa ma “centri di responsabilità dotati di autonomia gestionale e amministrativa nonché di una limitata capacità di spesa all’interno di un budget loro assegnato”- hanno incontrato non pochi ostacoli, anche di tipo interpretativo, che ne hanno rallentato l'attuazione.

Ma a determinare una sorta di autonomia dimezzata è stato soprattutto il calo dei finanziamenti al sistema università. Nel 2015, gli Atenei statali hanno fruito di risorse pari a 12,8 miliardi. I trasferimenti statali sono diminuiti di oltre il 10% rispetto al 2011, né va meglio il contributo di regioni ed enti locali a causa delle condizioni della finanza locale.

Tra le entrate cresce, soprattutto al sud, la sola componente contributiva versata dalle famiglie degli studenti che dai 1.769,9 milioni del 2011 passa ai 1.855 del 2015, nonostante la flessione del numero degli iscritti. Ora, occorre vedere quali saranno gli effetti derivanti dall'introduzione della no tax area, per gli studenti meritevoli con un indicatore ISEE al di sotto dei 13mila euro, prevista dalla legge di bilancio 2017.

Diminuiscono, invece, le entrate derivanti da convenzioni, contratti e vendita di servizi ad imprese e istituzioni territoriali. Un valore che dipende strettamente dai livelli di sviluppo e densità imprenditoriali dei territori di riferimento.

Il risultato di questa carenza di risorse è l'ampliamento dei poteri di indirizzo e coordinamento del Miur, un dato che si ricava sia dalla composizione del FFO, in gran parte destinato a specifici obiettivi (piano assunzionale) sia dalla ripartizione della quota libera (quota base e quota premiale).

Sotto tale ultimo profilo, la quota base, in precedenza erogata secondo livelli di spesa storica, vede, nel 2014, l’introduzione del costo standard che tiene conto dei soli studenti in corso e prescinde dalle peculiarità dei corsi.

“Quanto ai criteri di ripartizione della quota premiale (salita dal 7 per cento del 2008 al 20 per cento del 2016) ‒ scrivono i magistrati contabili – gli indicatori utilizzati, pur numerosi e variabili (tra il 2008 e 2015 sono stati utilizzati più di 20 indicatori diversi cambiati, in misura rilevante, tutti gli anni), tendono ad allinearsi agli obiettivi, definiti anche nell’ultimo DEF, volti ad accrescere il livello di internazionalizzazione del sistema educativo e della ricerca, ancora inferiore rispetto alla media europea.

Va, inoltre, sottolineata l’incidenza che su alcuni indicatori determina il contesto territoriale ed economico in cui si collocano le diverse Università (studenti in mobilità internazionale) e l’utilizzo crescente dei risultati della VQR (Valutazione della qualità della ricerca) che continua a rivestire un peso significativo anche a diversi anni di distanza dalla rilevazione (minore risulta il peso attribuito alla didattica che, al pari della ricerca, costituisce l’essenza della missione affidata al sistema universitario)”.

La spesa delle Università statali, nel 2015 ammontava a 11,7 miliardi (nel 2008 era di 13,5 miliardi), destinata in gran parte a coprire le spese per il personale (che pure sono diminuite dell’8% rispetto al 2011, in relazione alle politiche restrittive rispetto al ricambio del personale e al blocco delle retribuzioni).

Ma qual è la situazione del personale universitario?

“Anche su questo versante l’ambito di autonomia originariamente riconosciuto alle Università – scrive la Corte dei Conti – si è progressivamente affievolito a seguito della introduzione di una disciplina per la programmazione del fabbisogno del personale e per il reclutamento dei docenti e dei ricercatori” considerato che “un ruolo centrale assume l’individuazione delle risorse disponibili, corrispondenti ad una quota della spesa relativa al personale cessato dal servizio nell’anno precedente, che vengono assegnate annualmente dal MIUR ai singoli Atenei in termini di “punti organico” sulla base del valore degli indicatori di sostenibilità economica e finanziaria”. A questo meccanismo si è poi venuto a sommare il congelamento di una parte dei predetti “punti organico” nelle more dell’assorbimento del personale amministrativo delle soppresse Province.

Relativamente alle nuove modalità di reclutamento dei professori e dei ricercatori universitari, i magistrati contabili sembrano bocciare la legge n. 240 del 2010 su tutta la linea. “Quanto al reclutamento dei ricercatori – essi scrivono – il sistema scaturente dalla legge di riforma, pur in linea con le esperienze internazionali, complica il percorso di carriera nel ruolo di docente, atteso che l’introduzione della figura del ricercatore a tempo determinato, con contratto triennale di tipo a), prorogabile di due anni, ed in seguito con contratto triennale di tipo b), allunga il periodo del servizio non di ruolo, in particolare nei confronti degli studiosi già titolari di assegno di ricerca, contribuendo ad alzare l’età media di accesso al ruolo dei professori universitari”.

L’andamento delle assunzioni nel periodo 2011-2015 evidenzia una crescita significativa dei contratti di tipologia a) e un aumento molto più contenuto dei contratti di tipologia b), malgrado i vincoli posti dal d.lgs. n. 49 del 2012 e le risorse specificamente stanziate, una situazione solo in parte corretta con le misure previste nella legge di stabilità per il 2016, che hanno determinato un aumento del numero dei ricercatori di tipologia b).

La Corte sottolinea come l’insufficienza di risorse ha determinato una scarsa mobilità del personale da un ateneo all'altro, le procedure concorsuali hanno premiato essenzialmente il personale già presente all'interno dei singoli atenei, piuttosto che studiosi di chiara fama presenti in altri istituti. “Rilevante appare, in ogni caso, il numero delle chiamate relative al personale in servizio nella stessa Università che bandisce il posto (circa la metà delle chiamate) che non sempre ha garantito il rispetto del vincolo, posto dalla stessa legge n. 240 del 2010 in base al quale, nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione e fino al 31 dicembre 2017, veniva consentito alle Università di destinare a tale forma di chiamata fino alla metà delle risorse equivalenti a quelle necessarie per coprire i posti disponibili di professore di ruolo”.

Poche le chiamate dirette anche dopo l'introduzione del “Fondo per le cattedre universitarie del merito Giulio Natta”, destinato al reclutamento per chiamata diretta di 500 professori di I e di II fascia. Viceversa crescono i docenti a contratto e le supplenze.

E qual è la qualità della didattica e dei servizi offerti agli studenti? Sicuramente quella dell'università pubblica – con 12.124 ordinari, 19.081 associati e 16.580 ricercatori, nell’a.a. 2015-2016 – è migliore della privata se è vero, come è, che le 66 università statali e i 5 Istituti di alta formazione accolgono il 90 per cento degli universitari, concentrati per l’82% nei 41 Atenei medio-grandi (con più di 15.000 iscritti). Possono scegliere tra 4.586 corsi di studio (di cui 245 interamente in inglese), 2.255 di primo livello e 2.015 di secondo, 316 a ciclo unico. Devono iscriversi, sempre più, fuori sede dato che si è ridotto il numero dei Comuni sede decentrata di corsi di studio.

Nell’anno accademico 2015-2016, risultano iscritti 1.671.237 (erano 1.785.566 nell’anno accademico 2010-2011).

Un'università che, però, non riesce a garantire l'accesso al mondo del lavoro - pur avendo attivato percorsi di job placement con tirocini e stage curricolari (279.590 nell'a.a. 2013-14) - se, come si legge dal Referto, “a tre anni dal conseguimento dalla laurea si registra un tasso di occupazione pari al 66 per cento per i laureati triennali (che per il 54 per cento proseguono gli studi con la laurea magistrale) e pari al 70 per cento per i laureati di secondo livello. I laureati a ciclo unico (in architettura, farmacia, giurisprudenza, medicina, veterinaria) che conseguono l’occupazione a distanza di tre anni dal conseguimento del titolo sono il 49 per cento”.

Che la nostra università dialoghi poco e sia poco attrattiva per il mondo produttivo lo conferma il basso livello di investimenti in ricerca e sviluppo (R&S), soprattutto del settore privato, che emerge dal recente Country Report della Commissione europea 2017.

Le risorse finanziarie destinate alla ricerca di base provenienti dal fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (FIRST), dal 2010, non vengono riconfermate e hanno consentito il finanziamento dei soli progetti di ricerca di interesse nazionale delle Università (PRIN), in compenso, “a fronte della progressiva riduzione delle risorse statali, vi è stato un buon andamento della partecipazione a bandi europei e a contributi provenienti dal mondo privato, nel cui ambito significativi risultano i proventi in conto terzi. Il quadro complessivo dei progetti e dei finanziamenti ottenuti nel quadriennio 2011-14, evidenzia oltre 22.700 progetti per un ammontare di cassa di oltre 1,7 miliardi”.

Viceversa - scrivono sempre i magistrati contabili - spesso gli spin-off “non hanno realizzato i risultati attesi” perché, sebbene abbiano un basso tasso di mortalità, la gran parte di essi “si attesta su una dimensione di fatturato appena sufficiente alla sopravvivenza”.

Ma non basta, il numero dei corsi di dottorato si è ridotto del 40% mentre crescono gli assegnisti.

Ma, soprattutto, la nostra non è più un'università capace di garantire l'ascensore sociale. Le risorse disponibili per l’erogazione delle borse di studio mostrano per il periodo di riferimento (2011-2015) un grado di soddisfazione non superiore all’80 per cento delle richieste ammissibili, che nel 2012 ha raggiunto il suo punto peggiore con il 66,82 per cento. Forti le disparità regionali, sicché mentre Basilicata, Emilia-Romagna, Liguria, Marche, Umbria, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Abruzzo riescono a soddisfare il 100%, la Calabria è al 39,69% e la Sicilia al 28,73. Permane l'assenza di servizi abitativi, “complessivamente il numero di posti alloggio disponibili presso i 14 Collegi universitari legalmente riconosciuti che beneficiano del contributo da parte del MIUR è di 4.155, cui si aggiungono i 2.514 posti alloggio disponibili presso le 3 Residenze universitarie che beneficiano del contributo da parte del MIUR”.

Per sostenere gli studenti meritevoli ma con un basso reddito, la legge 240 prevedeva l'istituzione di un Fondo gestito da un'apposita Fondazione, ad oggi ancora non operante. I 17 milioni di euro per esso previsti sono stati destinati al finanziamento di borse di mobilità per il sostegno degli studenti universitari capaci, meritevoli e privi di mezzi. In compenso, si è subito provveduto ad istituire l'ennesima Fondazione, denominata “Fondazione Articolo 34”, alla quale dovrebbe essere affidato il compito di bandire almeno 400 borse di studio nazionali del valore di 15.000 euro, destinate ai predetti studenti.

Quanto alla spesa delle università, in generale, se diminuisce quella per le acquisizioni di beni immobili e per gli interventi edilizi (a fronte di assegnazioni di risorse per 207,2 milioni, vi sono 27,9 milioni non impegnati), viceversa, v'è una ripresa, specialmente al sud, degli investimenti in attrezzature tecnico scientifiche.

Molti sono gli affidamenti al di sotto della soglia comunitaria e quelli diretti al di sotto dei 40mila euro, favoriti anche dalla normativa vigente. Circostanza che “suggerisce un aggiornamento dei regolamenti di amministrazione e contabilità”.

Resta aperta la questione della partecipazione degli atenei a circa 600 società di capitali, ben 128 delle quali consortili, che dovranno essere dismesse, scrivono i magistrati “Restano, ancora in ombra ... alcuni aspetti connessi alla particolarità delle partecipazioni detenute dalle Università e, in generale, dagli enti la cui missione istituzionale comprende una preminente attività di ricerca”. Società per le quali, la fuoriuscita, prima del termine delle attività in corso, potrebbe determinare un danno economico o la perdita, in prospettiva, di nuovi finanziamenti in ordine ad una progettualità già sviluppata e presentata.”

Quali sono le conclusioni a cui perviene la Corte in merito alla riforma del 2010?

Tutto il sistema si regge sulla “leva finanziaria” e ne viene profondamente condizionato. Una leva che è in mano, in primo luogo, al Miur che ha la “regia centralizzata” del funzionamento dell'intero sistema universitario. Occorre, quindi - scrivono i magistrati contabili - “un'opera di aggiornamento e completamento dell'attuale normativa” e “considerato l'elevato livello raggiunto dalle tasse universitarie, un'accelerazione richiede, in particolare, l'attuazione della disciplina del diritto allo studio ... atteso che ... non sono stati ancora definiti i livelli essenziali delle prestazioni (LEP)” ... ”appaiono, comunque, maturi i tempi per l'attuazione dell'art.1, comma 2, della legge n. 240 del 2010 volto ad attribuire alle Università che hanno conseguito la stabilità e la sostenibilità del bilancio, nonché risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca, la possibilità di sperimentare propri modelli funzionali ed organizzativi.”

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