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Sabato, 13 Dic 2025

Nei giorni scorsi è sorto un dibattito sul fatto che alcuni proprietari di social come Facebook e Instagram (di Mark Zuckerberg), Twitter (di Jack Dorsey) ne avevano tolto l'uso a Donald Trump il giorno della befana mentre era in corso l’attacco eversivo al Campidoglio dei suoi sostenitori.

Qualcuno, anche a sinistra e nel campo progressista, come Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano, ha parlato di nuovo maccartismo, altri, come Vincenzo Vita su Il manifesto, si è domandato se “l'aver tolto la parola a Trump costituisce un possibile spartiacque nella storia dei social e del loro del potere decisionale. I vertici incontrollabili di società private senza terra né legge sono in grado di staccare la spina a chi non è ritenuto interno all'etichetta stabilita in modo altrettanto privato. Oggi Trump. Ma domani?”.

La questione non è di poco conto, visto il peso che i social media hanno assunto nell’informazione e disinformazione dell’opinione pubblica e nella battaglia politica e culturale. La rete social è diventata un luogo di scontro per eccellenza, senza regole ed esposta all’intervento di entità organizzate, siano esse società o enti economici, partiti, gruppi, e leader di vario grado e natura che organizzano vere e proprie campagne o per promuovere prodotti, il che fa parte della pubblicità, o per annichilire anche con fake news i propri avversari, il che fa parte del malcostume prevalentemente destrorso. Fra quest’ultimi chi ha usato ad abundantiam i social è stato proprio l’attuale eversore domiciliato alla Casa Bianca che durante i quattro anni di presidenza si è dedicato mattina e sera a twittare freneticamente, per dare ai suoi sostenitori le parole d’ordine e far conoscere i suoi orientamenti e giudizi.

L’altra sera, nel suo abituale “punto” nella trasmissione condotta da Lilli Gruber Otto e mezzo, Paolo Pagliaro ha evidenziato i diversi gravi difetti dei social media rispetto agli atri canali d’informazione, opinione e comunicazione come giornali, radio e TV. Per esempio il rispetto di vari articoli del codice penale: dall’obbligo di riconoscimento, alla diffusione di notizie false e tendenziose, alle minacce, allo stalking ecc.. Tutti articoli che valgono per la carta stampata, radio e TV.

E’ evidente che la prima questione che si pone è come la mano pubblica a livello statale ma anche sovranazionale, vista la natura dei social, - e qui l’articolo di Vita è prezioso per ricostruzione dei tentativi operati a livello sovranazionale e suggerimenti concreti - possa intervenire perché regole e codici di comportamento condivisi stiano alla base della fruizione di questi canali, a cominciare dal rispetto del codice penale e civile dei vari paesi. E questo al di là dei proprietari dei social cui non possono essere demandate a piacimento tali incombenze che, lungi dal limitare la libertà di opinione, la rendano, invece, democraticamente trasparente; a cominciare dall’identificazione di chi insulta e minaccia gratuitamente all’ombra di una privacy che in questi casi non alcun motivo d’essere. In sostanza quei tanti “Napalm51” che infestano vigliaccamente la rete social.

Inoltre, si pone la questione come la proprietà di una simile potenza comunicativa che è anche finanziaria e che sta ridimensionando giornali e TV possa essere liberisticamente incontrollata a cominciare dal pagamento delle tasse nei luoghi nazionali in cui i social media operano. Su questo nella Unione europea è in corso un serrato dibattito.

In questo quadro, occorre sottolineare che la tutela della libertà d'opinione non c’entra un bel nulla con quanto è stato fatto a Trump e, tanto meno, con il “maccartismo”. Costui non stava esprimendo un’opinione, ma, in qualità di Presidente degli Stati Uniti, stava incitando tramite i social media a un’azione aversiva contro le Istituzioni democratiche situate nel Campidoglio di Washington. In questo caso i social erano il suo strumento per comunicare agli eversori gli obiettivi da colpire. E siccome l’eversore resta ancora in carica fino al 20 gennaio, è giusto che sia stato messo in condizione di non avvalersi di questi strumenti di comunicazione, visto che non si è affatto pentito di quel che ha combinato. Mark Zuckerberg e Jack Dorsey hanno fatto bene a bannare Trump, in mancanza di un’autorità statale deputata a farlo.

Gli hanno sottratto gli strumenti principali di un’azione insurrezionale e eversiva che ha provocato morti che l’eversore stava dirigendo e per la quale ora è stato messo sotto impeachment dal Camera dei rappresentanti statunitense. In qualsiasi paese democratico dove accadessero fatti simili di insorgenza contro le Istituzioni democratiche, l’autorità dello Stato metterebbe subito in condizioni di non nuocere sia le sorgenti, uomini e organizzazioni, sia i mezzi usati per ciò che si configurerebbe come un vero e proprio colpo di stato. Il che, in altri tempi, avrebbe significato arrestare i golpisti medesimi impedendogli ogni accesso a radio, TV, giornali ecc. oltre a chiudere i loro.

Chiarito questo, il problema che urge affrontare è certamente la regolazione dei social media da parte della mano pubblica nelle società democratiche per assicurarne l’accesso a tutti secondo regole basate su giustizia, eguaglianza e responsabilità. Ma non per il caso Trump che, semmai, come rilevava Pagliaro, ha costretto Zuckerberg e Dorsey a un gesto di responsabilità.

E, aggiungiamo noi, di igiene democratica.

Aldo Pirone
Coautore del libro "Roma '43-44. L'alba della Resistenza"
www.facebook.com/aldo.pirone.7

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