Alla fine di questo secolo saremo un mondo meno popolato e più vecchio. Piacerebbe dire che saremo (saranno) anche più saggi, ma non possiamo saperlo. La leggenda che la saggezza arrivi con l’età appartiene a un tempo che non è più il nostro, quando invece in molti paesi governano vecchi che non sembrano per nulla saggi, e anzi sembrano agenti del caos.
Però magari alla fine del secolo sarà diverso. E dovremmo augurarcelo, se non per noi, che saremo altrove, per i nostri figli e i loro figli che rischiano di ereditare un pianeta esausto e un’umanità assai più dolente di quanto non appaia oggi.
Nel frattempo, e per fortuna c’è molto tempo, dobbiamo fare i conti con un passaggio storico. Tutto il mondo, e in particolare i paesi ad economia avanzata, sta attraversando una faticosa transizione demografica dove due fattori, uguali e contrari, contribuiscono al mutamento del volto ella nostra società: la minore natalità e l’allungamento della vita media.
Gli anziani saranno sempre di più, in sostanza. E questo segna un radicale mutamento anche dell’iconografia, come già si indovina guardando la foto in alto a sinistra, che accompagna il capitolo dell’ultimo World Outlook, report che il Fondo monetario ingernazionale (Fmi) dedica alle prospettive e le difficoltà della Silver economy, che è un modo elegante per dire che stiamo diventando tutti vecchi.
Domani, ma anche già oggi è così, sarà sempre più frequente che i nostri luoghi di lavoro esibiscano assai più capelli bianchi che scuri, più rughe che pelli lisce. Questo nell’ipotesi che le società rinsaviscano e riescano ad accettare l’ovvio: ossia che in società dove la forza lavoro scarseggerà perché si fanno sempre meno figli, dovranno lavorare più persone – e le donne in molti paesi partecipano ancora meno degli uomini al lavoro – e più a lungo. L’alternativa è rinunciare al welfare: non ci sono molti altri modi per dirlo. Pagare pensioni e sanità a una popolazione anziana crescente è possibile solo a patto che la partecipazione al lavoro saturi il più possibile la forza lavoro.
Questo implica che ci sia lavoro, ovviamente. E per giunta in un mondo che sta addestrando con chissà quanta consapevolezza molte intelligenze artificiali che complicano i termini dell’equazione. Serve lavorare di più, ma le macchine potrebbero farci lavorare di meno. Un bel dilemma, che lasciamo in eredità ai nostri posteri, consolandoci solo col pensiero che è andata sempre così. La tecnologia ha sempre distrutto e creato posti di lavoro, di solito con saldi positivi. Rimane il fatto che una popolazione più anziana fa sicuramente più fatica rispetto a una giovane a digerire l’innovazione. E questa variabile nell’equazione prima non c’era.
Silver economy significa anche questo, e quindi implica un continuo upgrade delle proprie competenze e una costante sfida cognitiva per l’individuo. Si può anche invecchiare in salute ma diventa difficile mantenere un lavoro se le proprie competenze diventano obsolete, specie in un contesto che premia il capitale umano.
Da questo punto di vista, l’analisi del Fmi, che si è svolta sulla base di una micro survey che ha coinvolto sia paesi emergenti che avanzati solleva qualche spiraglio di ottimismo. Secondo le analisi svolte in media è emerso che le persone di 70 anni nel 2022 avessero un livello cognitivo assimilabile a un 53enne del 2000. A questo progresso si è associato l’aumento della probabilità di circa il 20% che una persona rimanga più a lungo nel mondo del lavoro, con un aumento medio di circa sei ore del proprio tempo di lavoro a settimana.
Fuori dai numeri il discorso è chiaro. Il sistema economico, per reggersi, ha creato le condizioni per allungare la vita del proprio capitale umano, che però deve essere impiegato funzionalmente. Lo stress cognitivo a cui siamo sottoposti ogni giorno – vent’anni fa non esistevano gli smartphone di oggi e non eravamo devastati da mail, messaggi e notifiche – paga il suo premio regalandoci un vita professionale (potenzialmente) più lunga e (forse) anche una vita più sana. Ma questo premio non è gratis. Lo dobbiamo pagare col nostro lavoro.
Rimane il fatto che non basterà. L’invecchiamento della popolazione si rifletterà necessariamente sulla velocità di crescita dell’economia. Lo scenario disegna una crescita globale annua inferiore di circa un punto nel periodo 2025-50 rispetto al periodo 2016-18, con i trend demografici a pesare almeno un terzo di questo calo. Questo riporta la palla nel campo del governo, che dovrà fare i salti mortali per far quadrare i conti, avendo peraltro alle spalle contabilità complicate.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”