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Mercoledì, 24 Apr 2024

L’ossessione per la diseguaglianza in questo inizio di XXI secolo somiglia a quella anticapitalista così tanto sottilmente illustrata da J.A. Schumpeter in un libro della metà degli anni ’50 del secolo scorso. L’economista austriaco scriveva parole oggi purtroppo dimenticate da (quasi) tutti.

Vale la pena ricordarne alcune: “L’opinione pubblica ormai è talmente prevenuta, che la condanna del regime capitalista e di tutte le sue opere passa per una conclusione già scontata, quasi un obbligo di società. Ogni scrittore o oratore, quali che siano le sue simpatie politiche, è ansioso di rispettare questo codice e di ribadire la propria avversione per gli interessi capitalistici e la propria simpatia per quelli anti-capitalistici. Qualunque altro atteggiamento passa non solo per assurdo, ma per antisociale; vi si riconosce una prova d’immorale servilismo”.

L’immorale servilismo trova di che nutrirsi nei peana che “ogni scrittore o oratore” oggi dedica alla questione della diseguaglianza. Se si sostituisce diseguaglianza a capitalismo, le parole di Schumpeter potrebbero essere scritte oggi. E non rende meno triste questa circostanza il fatto che molti di costoro che soddisfano questo novello “obbligo di società” siano sinceramente convinti di ciò che sostengono. La parola diseguaglianza è come un vessillo da mostrare alle masse, a testimonianza non solo della propria buona fede, ma anche delle proprie buone intenzioni. Tanto è vero che solo di rado si specifica di che diseguaglianza si parli – ne esistono vari tipi – e al netto o al lordo del fisco, eccetera.

In tal senso è esemplare l’esordio di un paper molto interessante pubblicato dal NBER dove si analizza l’effetto che le eredità hanno sulla diseguaglianza, che l’opinione comune giudica sicuramente elevato, mentre l’analisi dei dati mostra il contrario. O almeno, così sostiene a meno di non considerare eredità molto importanti. E ci mancherebbe, viene da dire, trattandosi di conclusione ovvia. La questione però non riguarda quei pochi, anzi pochissimi a sentire i teorici della diseguaglianza, che si collocano sulla vetta sempre meno affollata della distribuzione statistica. E’ chiaro che i loro eredi saranno ricchi. Ma quei tantissimi che compongono la fascia centrale della piramide della ricchezza. A loro fa riferimento lo studio, prendendo spunto dai dati raccolti in un ventennio in Norvegia. Scelta curiosa, ma comunque spiegabile con il livello tutto sommato contenuto di ricchezza privata di questo paese, somigliando con ciò agli altri paesi scandinavi.
Ma dicevamo dell’esordio. Cito testualmente. “Ci sono stati drammatici aumenti della disuguaglianza di ricchezza negli Stati Uniti e in altri paesi: l’1% più ricco degli Stati Uniti possedeva circa il 20% della ricchezza del paese nel 1980, mentre oggi ne possiede circa il 35%. Molti temono che queste disuguaglianze persistano anche per le future generazioni”. L’eredità, appunto. Chissà cosa ne scriverebbe oggi Schumpeter.

Ma poiché egli purtroppo non è più fra noi, tocca accontentarsi dei volenterosi compilatori di equazioni del NBER, a cui va senz’altro riconosciuto di aver svolto un egregio lavoro di analisi. Alcuni dati serviranno a dare maggiore sostanza alle conclusioni. Cominciamo dall’indice di Gini, che com’è noto è una misura statistica della diseguaglianza che oscilla da 0 (massima eguaglianza) a 1 (massima diseguaglianza). Nel 2014 questo indicatore valeva 0,69 per l’eurozona, 0,76 in Germania, 0,68 in Francia e 0,6 in Italia, mentre in Norvegia era a quota 0,68. Gli indignados nostrani scopriranno con sorpresa che siamo più eguali della Norvegia.

Se guardiamo alla quota di ricchezza posseduta dal 10% più ricco, altra classica pietra dello scandalo, scopriremo che nell’eurozona vale il 42,4%, in Germania il 59,8, in Francia il 50,7 e in Italia il 42,8%, mentre in Norvegia nientemeno che il 51,4%. Anche qui i nostri più ricchi sono meno ricchi dei norvegesi. Ma non in media, visto che spulciando i conti nazionali del 2013 (in euro del 2019) viene fuori che gli scandinavi hanno una ricchezza individuale netta di 101 mila euro, e gli italiani di 177 mila. Ciò per ricordare, come disse qualcuno che la sapeva lunga, che se li torturi a lungo i numeri confesseranno qualsiasi cosa.

Se attingiamo ai dati del World Inequality database (che esista un database sulla diseguaglianza è un altro segno dei tempi), viene fuori che il rapporto fra ricchezza e reddito in Norvegia è pari a 5,38, in Germania 6,16, Usa 5,66, Francia 8,15 e Italia 9,39. Un dato che si può leggere in tanti modi, essendo un rapporto. L’elevato indice italiano, per dirne uno, può essere conseguenza del basso livello dei redditi, non solo dell’alto livello di ricchezza. E questo è un altro problema dei numeri: da soli non dicono niente, ma si prestano facilmente ad essere strumentalizzati.

Veniamo alle conclusioni. “Regali ed eredità costituiscono una piccola proporzione degli afflussi totali (fra il 3 e il 6% a seconda dell’età) che dipendono in larga parte da redditi da lavori e trasferimenti del governo. Questo è vero anche per quelli che hanno una ricchezza elevata e per quelli che hanno redditi elevati, anche se questo contributo è più elevato per le persone che si trovano nell’1% più elevato di ricchezza e reddito”. Insomma, l’eredità pesa significativamente per i super ricchi, ma assai meno per le persone “normali”.

Questa evidenza, che come tutte le analisi economiche va presa con giudizio, ha ricadute anche dal punto di vista fiscale. Nel senso che “la tassazione delle eredità può fare poco per mitigare l’estrema diseguaglianza della ricchezza nella società”.

Ed ecco serviti anche gli alfieri del fisco punitivo. Forse però c’è un altro modo per mitigare la diseguaglianza. “Il capitale umano può essere un fattore critico per comprendere la grande diseguaglianza che esiste nel mondo moderno”, concludono. E quello è difficile ereditarlo.

Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
Twitter @maitre_a_panZer
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