Ossessionati come siamo dal numeretto che quantifica la nostra crescita, non prestiamo la dovuta attenzione ad altre due variabili esibite in bella vista nell’ultimo World Economic Outlook del Fmi: l’andamento del commercio internazionale e l’inflazione.
Non solo questi due fattori esibiscono diversi elementi di correlazione – un commercio internazionale fiorente contribuisce a mitigare i prezzi – ma hanno molto a che vedere col famoso numeretto: se si commercia molto vuol dire che si produce molto, e quindi si investe e si consuma, eccetera, eccetera.
La ricognizione svolta dal Fmi, da questo punto di vista, non è molto incoraggiante. Il commercio internazionale quest’anno è previsto cresca solo del 2 per cento, confrontandosi questo dato con il 5,2 per cento del 2022, con la previsione che torni al 3,7 nel 2024, “ben al di sotto della media del 4,9 per cento del periodo 2000-2019”.
La tanto vituperata globalizzazione, almeno quanto ai suoi esiti, non la rivedremo tanto presto. Un po’ perché si sta assistendo a una ricomposizione della domanda verso i servizi domestici, un po’ perché l’apprezzamento del dollaro ha tolto potere d’acquisto a parecchie economie, che in dollaro fatturano, un po’ perché, dulcis in fundo, sono aumentate le barriere al commercio. Volevamo più autarchia? L’avremo. Poi però non bisognerà lamentarsi che i prezzi si dimostrino così caldi.
Il problema, e qui veniamo al secondo dato, è che l’inflazione core, ossia quella al netto di energia e beni alimentari freschi, sta rallentando molto lentamente, e si prevede ancora sopra i target delle banche centrali per i prossimi due anni. A essere ottimisti, visto che nel 2024 si vede ancora al 4,7 a livello globale, rilevandosi “più persistente di quanto programmato, specie nelle economie avanzate”. In queste economie le previsioni dell’inflazione core sono state addirittura riviste al rialzo, rispetto al WEO di aprile scorso, di 0,3 punti per il 2023 e 0,4 nel 2024. Su base annuale, “circa metà delle economie è previsto non vedano declino nell’inflazione core”.
Vi risparmio il resto perché il messaggio è chiaro. I prezzi non solo cresceranno assai più rapidamente del previsto, ma questo movimento durerà bel al di là dell’orizzonte di previsione.
Che fare allora?
Come cittadini non possiamo fare granché. L’erosione del potere d’acquisto, in un contesto di salari che quando crescono crescono al di sotto dell’inflazione, farà il suo lavoro. Piano piano inizieremo a contrarre i consumi e a rimandare gli investimenti. Niente cene fuori, niente macchina nuova, vacanze col contagocce. Almeno quelli che hanno pochi risparmi o non vogliono spenderli. E siccome i consumi delle famiglie sono una importante componente del famoso numeretto che ci ossessiona, è facile prevedere che i cali congiunturali, ma anche tendenziali, del Pil saranno più frequenti del solito.
Quindi non solo dovremo stringere la cinghia, ma anche sorbirci i peana degli economisti depressi. A questo c’è rimedio, per fortuna. Basta tapparsi le orecchie. Ma per il resto no. Servirà pazienza. E soprattutto tempo. A proposito, ricordatevi quello che diceva il vecchio Benjamin Franklin a proposito del tempo: è denaro. Ecco cominciate a spendere bene questo.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del recente libro “La storia della ricchezza”
Twitter @maitre_a_panZer