Negli ultimi quattro anni, complice anche la sospensione delle regole europee di contenimento della spesa, l’emorragia dei conti pubblici è proseguita senza sosta.
Tra il 2020 - quando sono state introdotte le prime misure di sostegno all’economia per il Covid - e il 2023, si è accumulato un deficit di 632 miliardi di euro (a un ritmo di oltre 150 miliardi l’anno).
Se da un lato lo Stato si è indebitato, dall’altro qualcuno sul territorio nazionale ne ha tratto vantaggio, considerando che sono anche affluiti 112 miliardi dall’estero.
Le famiglie nel loro complesso hanno registrato un surplus di 275 miliardi, concentrati soprattutto nel biennio 2020-2021, quando hanno potuto usufruire di ingenti trasferimenti in denaro per fronteggiare la caduta dei redditi da lavoro. Paradossalmente, la povertà assoluta è, però, aumentata dal 6,7% delle famiglie, nel 2019, al 8,5%, nel 2023. I trasferimenti effettuati sembrano, pertanto, aver favorito un aumento delle disuguaglianze.
Gli istituti di credito, che hanno svolto un ruolo da intermediari in quasi tutte le misure di sostegno finanziario a famiglie e imprese, hanno accumulato oltre 240 miliardi di euro, a un ritmo quasi costante di 60 miliardi l’anno. A questi vanno poi aggiunti gli stratosferici margini di profitto (differenza tra i tassi attivi, incassati su mutui e prestiti, e passivi pagati sui depositi) realizzati a partire da luglio 2022, quando la Bce, per contrastare l’inflazione, ha progressivamente aumentato il tasso di interesse dallo 0% all’attuale 4,50%.
Dal canto loro, le imprese hanno messo da parte 225 miliardi in due anni, di cui 86 nel solo 2023, avendo ricevuto trasferimenti pubblici, sia correnti che in conto capitale, ai quali non sono seguiti corrispondenti investimenti, soprattutto nell’ultimo anno, quando il tasso di investimento è sceso al 20,9% del valore aggiunto, dal 22,3% del 2022.
L’indebitamento dello Stato si traduce, prima o poi, in debito pubblico aggiuntivo, che a sua volta genera una maggiore spesa dello Stato per pagare gli interessi su prestiti ed emissioni, passati da 60 miliardi, nel 2019, agli oltre 100 previsti per il 2027. Una spirale infinita che sottrae risorse all’economia reale, rendendo vano qualsiasi sforzo di perseguire il progresso sociale e avviare un percorso credibile di sostenibilità climatica e ambientale.
Non ha certamente aiutato a contenere l’indebitamento anche la perversa contabilizzazione dei crediti fiscali sul Superbonus, che prevede un disallineamento tra il momento in cui la spesa viene conteggiata a deficit (all’atto dell’impegno, secondo il principio di competenza), a quando poi determinerà i suoi effetti sul debito pubblico per le minori entrate erariali.
Il governo Meloni, che fin dal suo insediamento a ottobre 2022 ha tuonato contro l’insostenibilità finanziaria della misura, non è stato però capace di porre un freno all’indebitamento, nonostante un decreto di febbraio dello scorso anno, che avrebbe dovuto mettere ordine nelle agevolazioni per i lavori edilizi, ma che alla luce di quanto poi accaduto si è rivelato del tutto inefficace.
Ma nonostante la polemica si sia concentrata sui crediti del Superbonus (classificati contabilmente come trasferimenti in conto capitale alle famiglie, anche se con la cessione i veri beneficiari sono le imprese e le banche), i problemi delle finanze pubbliche non si esauriscono qui. L’acquisto di consenso politico, approfittando della sospensione dei vincoli europei, è passato attraverso la concessione di crediti di imposta alle imprese per svariate decine di miliardi e la mancata tassazione sugli extraprofitti degli istituti di credito.
E anche il Pnrr ha contribuito a intorbidire la situazione. Al 31 dicembre 2023, sono stati incassati 102 miliardi di euro, tra sovvenzioni e prestiti, mentre le spese effettivamente sostenute si sono fermate a 45,6 miliardi di euro, di cui 2,6 relativi a misure non più presenti dopo la revisione del piano. I 60 miliardi di eccedenza non sono stati accantonati, ma destinati ad altre finalità, con una riduzione fittizia del debito pubblico rispetto al Pil da 140,5 per cento del 2022, a 137,3 del 2023, che sarà però recuperata entro il 2026.
La situazione è davvero complessa da gestire e non sorprende che il Def (Documento di economia e finanza), approvato dal Consiglio dei ministri il 9 aprile scorso, contenga il solo quadro tendenziale, un inedito per un Governo nella pienezza delle sue funzioni, giustificato dalla circostanza che le regole europee sui vincoli di bilancio sono in corso di riscrittura.
Una scelta che, tuttavia, sembra nascondere la difficoltà del Governo a far quadrare i conti e ricavare margini di manovra per assicurare quanto meno la prosecuzione delle politiche (soprattutto fiscali) i cui finanziamenti scadranno alla fine di quest’anno. Per mantenere le politiche invariate, dovranno essere reperiti, attraverso nuove entrate o tagli di spesa, 20 miliardi per il 2025, 23 per il 2026 e 25 a partire dal 2027.
Indebitamento (deficit) o accreditamento (surplus) per settore istituzionale – 2020-2023 (milioni di euro)
Fonte: Istat, Conti per settore istituzionale
Franco Mostacci
ricercatore statistico, analista economico, giornalista pubblicista