Gli ultimi dati sul pil cinese, che continua a rallentare, confermano laddove fosse necessario che Pechino si trova nel guado di un modello di sviluppo che molto ha promesso e adesso si trova ad avere difficoltà a mantenere la parola, per giunta in un contesto che sembra fatto apposta a raffreddare il motore che finora ha fatto marciare l’economia del Dragone: il commercio.
Un motore truccato, si potrebbe dire. Quindi sovraperformante ma intrinsecamente fragile per le stesse ragioni che gli hanno regalato record brucianti in passato: usa combustili che finiscono con l’erodere la struttura stessa del motore.
Nel caso cinese, questi combustibili sono il livello degli investimenti, che rimane molto elevato, e il sostegno pubblico a certe produzioni, quelle cosiddette verdi in primis (auto elettriche) che alimentano un sovracapacità produttiva – un motore fuori giri, si potrebbe dire – che genera un vantaggio competitivo dei prodotti cinesi nei confronti dei concorrenti esteri ma che rischia di mandare fuori strada l’economia. I concorrenti, infatti, e il caso dei dazi Usa e adesso europei sta lì a dimostrarlo, iniziano ad attrezzarsi per difendersi. E questo rischia di fare molto male alle produzioni cinesi e, quindi, all’economia internazionale, che rischia di tagliare l’albero sul quale è cresciuta in questi due decenni.
Nel suo ultimo bollettino economico, la Banca d’Italia sottolinea che “il modello di crescita cinese continua a presentare evidenti squilibri strutturali. La quota di investimenti fissi sul PIL è considerevolmente superiore a quella osservata non solo nelle maggiori economie avanzate, ma anche in altri paesi emergenti in rapida crescita, come Brasile o India”.
Tuttavia, la quota rilevante di investimenti non basta più a garantire una crescita equilibrata, specie perché la domanda interna, intesa come quota dei consumi sul prodotto, “è fra le più basse nel confronto internazionale”.
I cinesi, insomma, consumano poco e producono tanto, e questo spinge all’insù il surplus commerciale, che è stato anche il pedale che il governo ha premuto per compensare la crisi del settore immobiliare, fonte di ulteriore indebolimento della domanda. Lo strumento sono stati i beni cinesi a tecnologia verde, ad esempio i pannelli solari, le cui esportazioni sono più che raddoppiate fra il 2019 e il 2023, con la Ue divenuta il principale mercato di riferimento con oltre il 40% delle vendite sul suo territorio.
Poi c’è la questione batterie al litio. Ue e Usa assorbono, rispettivamente, il 35 e il 20% delle esportazioni cinesi di batterie e secondo alcune stime la produzione cinese raggiungerà per il 2025 il livello di quasi 6 terawattora, il quadruplo della domanda globale prevista per lo stesso anno.
Al tempo stesso, la produzione di auto elettriche cinesi è più che raddoppiata negli ultimi anni e circa il 40% di questo prodotto è destinato all’estero.
Questo è lo scenario. Abbiamo un gigante che mostra segni di malattia incipiente a causa dei suoi squilibri che il mondo finisce con l’alimentare mentre cerca di contrastarli. L’economia cinese è capace di grandi contagi – lo abbiamo visto relativamente al contributo che la deflazione cinese ha offerto nel contrasto all’inflazione occidentale – e quindi fonte di grandi rischi, mentre le opportunità relative vanno sempre più erodendosi a causa del peggiorato clima internazionale.
La Cina saprà badare a se stessa. O almeno dovrebbe. Il problema è se il resto del mondo riuscirà a sostenere l’ammaloramento cinese. E questo non lo sa nessuno.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
coautore del libro “Il ritmo della libertà”
Twitter @maitre_a_panZer