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Martedì, 30 Apr 2024

Mario Melazzini, dal 23 dicembre scorso, è presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), al posto di Sergio Pecorelli, dimessosi dalla carica, dopo la sospensione per presunti conflitti di interesse.

Nato a Pavia 57 anni fa, Melazzini si è laureato in Medicina nel 1985, specializzandosi in Ematologia generale Clinica e di Laboratorio. E’ stato direttore dell'Unità operativa Complessa di Day Hospital Oncologico dell'Istituto Scientifico di Pavia, della Fondazione Maugeri Irccs e professore a contratto presso la I Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro dell'Università degli Studi di Pavia. Ha ricoperto anche la carica di assessore all'Università, ricerca e open innovation della Regione Lombardia.

Da dodici anni, convive con la Sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Si è ammalato quando di anni ne aveva 45 e ha scritto diversi libri in cui ha raccontato l'impatto della malattia sulla sua vita. E’ stato fino a poco tempo fa anche presidente nazionale di Aisla (Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica) e direttore scientifico del Centro clinico Nemo della fondazione Serena, attivo nell'ospedale Niguarda di Milano.

Al professor Melazzini abbiamo posto alcune domande alle quali, nonostante i suoi gravosi impegni di lavoro, il 9 marzo scorso ha risposto con grande cortesia e, per questo, gli siamo infinitamente grati.

Professore, quali sono i compiti affidati all’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco che da poco presiede?

AIFA è stata istituita più di dieci anni fa ed è l’autorità nazionale responsabile dell’attività regolatoria dei farmaci in Italia. Le attività dell’Agenzia sono molteplici e sono relative a quello che potremmo definire il “ciclo di vita” di un farmaco: innanzitutto controllo delle officine produttive e della qualità di fabbricazione, registrazione e autorizzazione all’immissione in commercio dei medicinali; verifica della sicurezza e appropriatezza d’uso e negoziazione del prezzo.

L’Agenzia inoltre provvede al governo della spesa farmaceutica con l’obiettivo di garantire la sostenibilità economica-finanziaria del Sistema Sanitario Nazionale garantendo l’unitarietà nazionale del sistema farmaceutico d’intesa con le Regioni.

Mi piace pensare che l’insieme delle attività istituzionali si possa sintetizzare con la tutela del diritto alla salute dei cittadini, soprattutto quelli più fragili, da garantire attraverso l’omogeneità e l’equità nell’accesso ai farmaci. Occorre infatti guardare al farmaco anzitutto come uno strumento irrinunciabile di promozione e difesa della salute.
    
L’AIFA opera in un contesto in cui, sotto il profilo regolatorio, gli attori coinvolti si sono moltiplicati anche in virtù dei processi di integrazione europea, dai quali non poteva restare escluso, per l’importanza vitale che riveste, il mondo del farmaco. Come si colloca l’Agenzia in questo scenario? Quanto è sviluppata la legislazione comunitaria in materia?

Il quadro normativo all’interno del quale operiamo si ispira a principi la cui formulazione è principalmente di matrice comunitaria. Il Decreto Legislativo 219/2006 è la nostra “Bibbia”, il testo di riferimento in materia farmaceutica, attraverso il quale è stato recepito e implementato anche nel nostro ordinamento giuridico il “Codice comunitario concernente i medicinali per uso umano” (direttiva 2001/83/CE).

La legislazione comunitaria in materia è particolarmente sviluppata e, a mio avviso, è auspicabile un sempre maggiore livello di integrazione.

Già oggi nel Continente europeo sono attive, sia sul fronte autorizzativo che su quello della valutazione scientifica, diverse procedure gestite direttamente a livello comunitario.

La procedura di autorizzazione detta “centralizzata”, coinvolge tutti gli Stati membri ed è attivata dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA) che effettua una valutazione scientifica della documentazione presentata dall’azienda farmaceutica e verifica che il rapporto tra benefici e rischi sia positivo e che il medicinale sia sicuro. Il Comitato per i medicinali ad uso umano dell’EMA trasmette il proprio parere alla Commissione Europea, cui spetta la decisione definitiva in merito alla commercializzazione del medicinale, vincolante per tutti gli Stati membri.

Questa procedura è obbligatoria per tutti i medicinali derivati da procedimenti biotecnologici, terapie avanzate, medicinali orfani, e per le nuove sostanze attive per il trattamento di sindrome da immunodeficienza acquisita, cancro, malattie neurodegenerative, diabete, patologie autoimmuni, altre disfunzioni immunitarie, malattie di origine virale. Accanto alla “centralizzata” esiste anche la procedura detta di “mutuo riconoscimento” che coinvolge un numero più ridotto di Stati membri e si basa sul principio dell’estensione dell’AIC di un medicinale concessa da uno Stato membro a uno o più Paesi dell’UE. Quando l’AIC di un medicinale è già stata rilasciata da un organismo nazionale competente, l’azienda farmaceutica titolare può dunque chiedere l’estensione di tale autorizzazione alle Agenzie regolatorie di uno o più Stati dell’UE, sulla base della stessa documentazione presentata nello Stato che per primo ha autorizzato il farmaco.

L’integrazione a livello europeo è attiva anche nel campo della farmacovigilanza, attraverso la condivisione delle segnalazioni di sospette reazioni avverse ai farmaci resa possibile ad esempio dal database EudraVigilance, strumento che consente un monitoraggio continuo della sicurezza dei medicinali impiegati nell’UE. L’AIFA sostiene quindi con convinzione la cooperazione europea, strada privilegiata per la diffusione delle best practices, e per questo fa del rafforzamento dei rapporti con l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA), con le Agenzie degli altri Paesi e con gli altri organismi internazionali uno degli obiettivi prioritari della propria mission.

Chi deve produrre i farmaci? Anticamente i farmacisti …

L’universo del farmaco si è molto evoluto se si considera che gli studiosi di farmacologia convengono nel farne coincidere l’origine con quella dell’uomo. Fino agli anni ’50 del secolo scorso il numero delle entità chimiche farmacologicamente attive e terapeuticamente valide era poco rilevante, di gran lunga inferiore alle preparazioni farmaceutiche e ai galenici preparati dai farmacisti.

Oggi assistiamo ad un’evoluzione straordinariamente rapida nel mondo della farmaceutica, che si trova ad uno snodo cruciale. Negli ultimi anni, infatti, sono state sviluppate numerose molecole innovative in grado di apportare notevoli miglioramenti nei trattamenti terapeutici. Secondo alcune stime sarebbero oltre 7.000 i nuovi farmaci in via di sviluppo. Solo nel corso del 2015, l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) ha raccomandato l’immissione in commercio di 39 nuove sostanze attive, su un totale di 93 nuovi farmaci, di cui 18 per il trattamento delle malattie rare. Molti di questi sono destinati al trattamento delle patologie oncologiche, e una parte consistente è costituita da farmaci e vaccini biotech, dal potenziale rivoluzionario per numerosissime patologie.

A promettenti benefici terapeutici corrispondono tuttavia costi molto elevati. Di fronte a questo scenario, la difficile sfida che le Autorità regolatorie sono chiamate ad affrontare è dunque quella di bilanciare, da un lato, il diritto all’accesso rapido e omogeneo ai farmaci innovativi di cui sia possibile misurare obiettivamente l’efficacia e la sicurezza, coniugando, dall’altro, questi aspetti con la sostenibilità economica del sistema.

Quali ripercussioni, in termini di efficacia terapeutica, hanno sulla salute dei pazienti che li assumono i farmaci generici? Chi controlla i farmaci generici, per esempio per l’utilizzo degli eccipienti? Che impatto ha avuto sul nostro SSN la loro introduzione?

La promozione e la diffusione di questi medicinali, rispetto ad altri Paesi europei, hanno conosciuto un riconoscimento normativo più lento in Italia, dove un impulso decisivo per la loro regolamentazione è stato impresso solo a partire dal 1995. Sebbene emerga un utilizzo tendenzialmente in aumento, esso è ancora limitato se confrontato ad altre esperienze più consolidate, come quella tedesca, inglese e francese. Ancora oggi permangono, infatti, resistenze di ordine culturale, riconducibili anche alla diffidenza generata nell’opinione pubblica dal nome con cui tali farmaci sono spesso indicati: “generici”.

Sarebbe decisamente più opportuno definirli “equivalenti”, ponendo così l’accento sul requisito della “bioequivalenza” – imprescindibile per la loro commercializzazione – rispetto al farmaco di riferimento con brevetto, detto anche “branded”. Un farmaco equivalente è infatti un medicinale avente la stessa composizione e quantità di principio attivo del medicinale brevettato, rispetto al quale è dunque improbabile che possa produrre differenze rilevanti sotto il duplice profilo di efficacia e sicurezza.

È sempre l’AIFA a farsi garante, al pari di qualsiasi altro, della conformità dei medicinali equivalenti, per i quali la qualità, la sicurezza e l’efficacia restano i tre prerequisiti da possedere per ottenere una Autorizzazione all’Immissione in Commercio. A prescindere che si tratti di un medicinale di marca o equivalente, i controlli cui sono sottoposti devono quindi soddisfare i medesimi standard, fissati a livello europeo, riguardanti tutte le fasi della produzione, inclusa quella di confezionamento e la vigilanza post marketing.

Oltre a garantire la medesima efficacia terapeutica, è bene da ultimo evidenziare come una maggiore diffusione dei farmaci equivalenti costituisce per il SSN un’importante opportunità per liberare risorse economiche, essendo il loro prezzo inferiore di almeno il 20% rispetto ai medicinali di riferimento, in ragione del fatto che le aziende che li producono operano su un principio attivo già noto e non devono per questo investire in ricerca, studi preclinici e clinici che ne attestino l’efficacia e la sicurezza dell’impiego sull’uomo. In definitiva, è dunque necessario continuare a promuovere l’utilizzo di questi farmaci, anche in ambito ospedaliero.

Nel suo nuovo incarico porta con sé anche la sensibilità che ha maturato dalla sua esperienza di malato. Come ovviare al fatto che spesso le malattie rare non rientrino tra gli obiettivi prioritari della ricerca industriale? Qual è l’impegno di AIFA per i farmaci “orfani”?

Con l’espressione “farmaci orfani” vengono designati quei medicinali destinati alla diagnosi, alla prevenzione o al trattamento di condizioni patologiche rare (con prevalenza non superiore a 5 su 10.000 persone nell’Unione Europea) che possono mettere a rischio la vita di quanti ne sono affetti. A dispetto della definizione, convivere con tali malattie è una condizione tutt’altro che rara considerato che oggi se ne conoscono tra le 7.000 e le 8.000, stima destinata a crescere con l’avanzare dei progressi scientifici, soprattutto nel campo della ricerca genetica.

Consapevole della loro condizione, nel corso del mio mandato intendo dedicare un’attenzione particolare a questi malati speciali, che pagano la scarsa incidenza della loro patologia con un grave deficit di terapie e trattamenti disponibili.

Sebbene negli ultimi anni la ricerca abbia conseguito importanti risultati, come dimostrano i 57 nuovi farmaci orfani approvati dall’EMA tra il 2012 e il 2015 – di cui 15 (6 antitumorali, 5 farmaci per il tratto alimentare e il metabolismo, 2 per il sistema nervoso, 1 per l’ambito oftalmologico e 1 antimicotico) solo nell’ultimo anno – l’interesse privato ad investire resta ancora insufficiente. Le ragioni per cui la ricerca industriale ha scarso interesse a fare delle malattie rare uno dei suoi obiettivi prioritari sono molteplici: reclutare una popolazione di pazienti sufficientemente rappresentativa da produrre evidenze di valore è più difficile e dispendioso rispetto a patologie ad elevata prevalenza; i ricavi, anche quando il percorso si conclude con successo, difficilmente sono tali da ripagare il capitale investito.

Sul tema delle malattie rare e dei farmaci orfani, a mio avviso, è tanto urgente quanto irrinunciabile un confronto dal punto di vista culturale, che faccia appello alla responsabilità sociale d’impresa delle aziende farmaceutiche. È indispensabile creare le condizioni per rendere più attrattivo questo filone di ricerca e dotarsi di strumenti in grado di valorizzare l’innovazione reale. I segnali registrati negli ultimi anni sono comunque incoraggianti. L’Italia, in particolare, è un Paese che ha maturato una consolidata sensibilità istituzionale alla cura delle malattie rare: dal 2010 ad oggi la spesa per i medicinali orfani è più che raddoppiata superando il miliardo e 200 milioni di euro (pari a circa il 6,8% della spesa farmaceutica totale).

L’AIFA, dal canto suo, ha mostrato grande attenzione nei confronti di questi pazienti accelerando i tempi per la negoziazione e predisponendo percorsi agevolati che consentono di accedere ai farmaci orfani, in particolari condizioni, anche prima dell’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC) (fondo AIFA, uso compassionevole, ex Legge Di Bella), oltre alla previsione di tutele economiche per i titolari di AIC di medicinali orfani. L’Agenzia, infine, per contrastare le malattie rare ritiene fondamentale il rilancio della ricerca indipendente ed un sempre maggiore coinvolgimento dei pazienti nei processi regolatori.

E’ giusto brevettare i farmaci? Se i farmaci non fossero più brevettabili chi pagherebbe la ricerca sui farmaci?

L’inizio della vita di un farmaco non coincide con il momento in cui è reso disponibile per la somministrazione al paziente, ma risale ad almeno dieci, dodici anni prima. Arrivare alla scoperta di un nuovo medicinale è infatti un percorso lungo, enormemente difficoltoso, tanto da rappresentare dal punto di vista scientifico una vera e propria impresa che richiede molti anni di applicazione e ha nella complessità della biologia umana il principale ostacolo alla sua realizzazione.
Le indagini e le sperimentazioni preliminari alla scoperta di nuove molecole prima di poter garantire ai pazienti cure efficaci rendendo disponibili nuovi farmaci risultano innumerevoli.

Solo raramente, inoltre, gli sforzi profusi dalle aziende farmaceutiche si traducono in un esito positivo e l’elevato coefficiente di difficoltà è testimoniato da un tasso di fallimento che si attesta intorno al 95%: su 5mila-10mila dei potenziali farmaci studiati, appena 5 raggiungono la fase della sperimentazione clinica, mentre solo 1 di questi riceve da parte delle Agenzie regolatorie il parere favorevole all’immissione in commercio. Il volume degli investimenti per portare a termine, con successo, l’intero processo viene stimato, da alcune analisi, intorno ai cinque miliardi di dollari.

A rendere le aziende farmaceutiche altamente dipendenti da una adeguata protezione brevettuale sono dunque lo sviluppo stesso dei prodotti medicinali e l’incognita del rischio industriale con cui devono convivere. In Italia, l’estensione ai medicinali della tutela brevettuale – negata con la prima legge in materia, lg. 782/1855, emanata dal Parlamento Subalpino, in base all’argomentazione secondo cui “il brevetto avrebbe consentito forti speculazioni, rallentato la ricerca, favorito i ciarlatani” –  risale al 1978. Senza questa tutela apprestata alla proprietà intellettuale, diverrebbe pressoché impossibile remunerare il rischio d’impresa e l’innovazione farmaceutica.

Vi sono Paesi, come l’India, dove nel caso di patologie particolarmente pericolose per la popolazione, al fine di prevenire eventuali pandemìe, si prescinde dalla data di scadenza dei brevetti dei farmaci e quindi è consentita la clonazione dei farmaci stessi. Non pensa che anche nel nostro Paese, alla luce dell’impoverimento della popolazione e delle sempre più ridotte prestazioni del servizio sanitario pubblico, per garantire il diritto costituzionalmente garantito alla salute e per prevenire la diffusione di malattie particolarmente pericolose per la collettività occorrano delle modifiche alla legislazione attuale sui brevetti dei farmaci?

Se, come si è visto, sono numerose le ragioni per cui i brevetti non devono essere demonizzati, la loro legittimità non elimina il rischio che nel settore farmaceutico gli interessi economici finiscano per oscurare i bisogni di salute, né mette a tacere i dilemmi sollevabili di fronte a farmaci i cui costi, particolarmente elevati, espongono il SSN al rischio insostenibilità.

È questo il caso di sofosbuvir, il primo di una lunga serie di principi attivi di nuova generazione a penetrare nel mercato. Accolto da un enorme carico di attesa da parte dei pazienti, promettendo l’eradicazione dell’epatite C, il prezzo del Sovaldi (nome commerciale del sofosbuvir) ha generato ovunque grandi perplessità, soprattutto legate a un difetto di trasparenza nella determinazione del prezzo. In India la Gilead ha conferito la licenza per la produzione di questo medicinale ad alcune aziende produttici di farmaci equivalenti per la vendita esclusiva in 91 paesi in via di sviluppo.

Premesso che le differenze di prezzo dipendono dalle numerose variabili considerate negli accordi negoziali che ogni Paese raggiunge con le aziende produttrici, tra cui incidenza di una patologia, volumi di vendita e PIL, difficilmente esperienze nazionali tanto diverse possono essere comparate. Più che puntare alla modifica della legislazione sui brevetti, per garantire prezzi equi le Agenzie regolatorie sono chiamate a farsi promotrici di nuove strategie di negoziazione.

In quest’ottica può rivelarsi molto utile avviare un dialogo precoce con le aziende, già in fase di progettazione degli studi clinici, producendo così mutui benefici: le aziende vedrebbero ridursi i tempi e i costi della ricerca e della sperimentazione clinica, oltre alle probabilità che il farmaco sperimentato vada incontro a un insuccesso, mentre le Agenzie potrebbero revisionare il rapporto rischio/beneficio e beneficio/prezzo/rimborso mano mano che la loro efficacia e sicurezza venga verificata nella pratica clinica reale e accordarsi così su un prezzo più vantaggioso.

Questa è la direzione in cui si sta muovendo l’AIFA, sfruttando al massimo i nuovi Registri di monitoraggio, database dinamici che collezionano dati epidemiologici certificati e validati, provenienti direttamente dalla pratica clinica, consentendo così di avere informazioni preziose sull’efficacia reale e sull’appropriatezza d’uso dei farmaci, per rappresentare gli unici generatori di evidenza regolatoria.

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