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Mercoledì, 03 Lug 2024

Il mantello di Marcela Serrano - traduzione di Michela Finassi Parolo - Editore Feltrinelli – pp. 168, euro 15.

Recensione di Adriana Spera

I libri di Marcela Serrano non sono certo allegri - rimandano spesso al periodo della spietata dittatura di Pinochet, agli abusi, alle torture o al confino ad essa connessi (I quaderni del pianto, Il giardino di Amelia, Il tempo di Blanca), all’esilio (Arriverderci piccole donne), alla condizione della donna in una società patriarcale come quella cilena (Noi che ci vogliamo così bene, Dieci donne, L’albergo delle donne tristi, Adorata nemica mia, Antigua vita mia, Quel che c’è nel mio cuore), alla voglia di indipendenza (Nostra signora della solitudine) – tuttavia, in essi le protagoniste, anche nelle situazioni più avverse, dimostrano di avere una forza e una capacità di resistere incredibili e, al contempo, risorse interiori rivoluzionarie come l’ironia e la fantasia.

Viceversa, l’ultima prova letteraria dell’autrice cilena, Il mantello, è davvero straziante, per il tema: la perdita di una persona cara. La scrittura, poi, forse per lo stato d’animo della scrittrice, anziché avere il solito ritmo incalzante tipico della Serrano, appare discontinua: capitoletti brevi, citazioni sul tema di molti autorevoli autori. Un libro, la cui stesura sarà certamente servita all’autrice per elaborare il lutto, ma che per il lettore rappresenta un’esperienza dolorosa, anche per la qualità della scrittura, non proprio all’altezza di una delle migliori autrici sudamericane.

Scritto dopo la lunga malattia e la morte per cancro della sorella Margarita, quando la Serrano si è rintanata per cento giorni in campagna, per non mostrare agli altri il proprio dolore e per tornare lì, dove da bambine giocavano insieme - Margarita un po’ maschiaccio, Marcela l’imbranata - e condividevano l’amore per il divo del cinema Charlton Heston, per la musica, per la lettura e la scrittura.

Una volta in campagna, si è messa a ricordare la vita con la sorella più cara, la sua compagna di giochi. Giorni in cui si è sempre più lasciata andare, ripensando agli ultimi mesi e alla sofferenza che ha dovuto affrontare l’amata Margarita, ma pure ai momenti in cui ella, con il suo buon carattere, ha cercato di sdrammatizzare la situazione.

Un’occasione per ricordare episodi familiari, i genitori, le sorelle, fra le quali Margarita Maria Macarena era la più allegra, la più estroversa, quella che pensavano tutti immortale, con la sua forza vitale capace di sconfiggere la malattia, come aveva già fatto anni prima. Un personaggio ben delineato nell’elenco «Cose che piacevano a Margarita: sospirare, la manicure, i colpi di sole, controllare i figli, ignorare i conflitti, sedurre, fare il bastian contrario, i tessuti di voile, viaggiare, perdere tempo, i cavalli, i paesaggi bucolici, fare la marmellata, conversare accanitamente, ridere… la passione per la scrittura, i tacchi alti».

Il titolo del libro, Il mantello, rievoca quello realizzato da Clara Sandoval - una sarta, madre della cantante Violeta Parra, perseguitata dai colonnelli, e di Nicanor, poeta, matematico e fisico, che molto ha influenzato la letteratura cilena - per tener al riparo dai freddi venti del sud il figlio. Mantello che finì poi per avvolgere le sue spoglie «Un involucro di pietà. Tanti quadrati o rettangoli, uniti tra di loro, alcuni ormai sfilacciati, scintille di colore, petardi in un giorno di festa, verdi, rossi, bianchi, stampati, marrone, viola, uno nero qui, uno rosa là, stretti gli uni agli altri in un diligente lavoro di patchwork». Il mantello per Margarita, invece, lo hanno tessuto le sue sorelle con la loro vicinanza fino all’ultimo istante di vita.

Una perdita, quella di una sorella, priva persino di una definizione verbale: «Quando ti muore il marito sei vedova. Quando ti muore il padre sei orfana. Linee gerarchiche, verticali. Io non sono né l’una né l’altra. Sono qualcosa che non ha nome, perché la mia perdita è orizzontale. Un bel problema: comincio già sapendo che le parole non bastano. Non ne esiste nessuna per definire il mio stato. Non hanno inventato nessuna parola per una sorella rimasta senza sorella.»

L’autrice va a rileggersi, quasi a chieder loro aiuto per definire il proprio dolore, come tanti grandi scrittori hanno affrontato la perdita di persone care. Fra gli altri, se per Freud, «consideriamo qualsiasi interferenza (con il lutto) inopportuna e addirittura dannosa» ma col tempo «Il rispetto della realtà prende il sopravvento», Clive Staples Lewis lamenta che nessuno gli ha mai parlato della pigrizia del dolore, mentre Roland Barthes scrive: «Mi fa una paura folle il carattere discontinuo del lutto».

Anche in questo libro non mancano le riflessioni sugli anni della dittatura, quindi sui desaparecidos e sul dolore delle loro famiglie: «Bisogna seppellire i propri morti. E tanti miei compatrioti non hanno potuto farlo. Ogni madre, ogni sposa, ogni figlia e ogni sorella: una Antigone. Migliaia di Antigoni hanno marciato lungo le strade del nostro paese invano. Hanno fatto domande e nessuno ha risposto».

Insomma, il libro è una sorta di diario del dolore patito in quei cento giorni e nei mesi successivi: «Oggi sono nove mesi che Margarita non c’è più. Nove mesi, un numero simbolico, il tempo che ci mette una vita a farsi realtà. Nove mesi: un periodo fecondo. E invece i dolori non mollano, quasi volessero spremere la nostra disperazione per continuare imperterriti a sferrare colpi. E ne parlo al plurale perché il dolore vero è la vita normale. Nel lutto, chi vince è il lutto. Non c’è scampo».

La conclusione della scrittrice è che possiamo elaborare il lutto solo se ci si interroga sul senso della morte, possiamo superare il rimpianto se capiamo che le persone continuano a vivere nei nostri ricordi. E comunque, per l’autrice, «Il lutto è un processo psicologico che va assolutamente preso in considerazione. Nessuno che ci si trovi dentro deve sottovalutarlo».

Adriana Spera
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