Eravamo ribelli. Le operaie del tabacco in Italia. Cento anni di lotte per il riscatto e la dignità di Walter De Cesaris - MR editori - 2022 - pp. 197, euro 12,00.
“Lotta dura senza paura” gridavano gli studenti nelle manifestazioni del 1968, uno slogan che ben si sarebbe adattato alle battaglie condotte in Italia, già dai primi anni del ‘900, dalle operaie del tabacco. Un secolo di lotte che ci racconta, dopo un’accurata ricerca storica degna di un accademico, Walter De Cesaris.
Un mondo quello della proficua (per lo Stato) produzione e commercializzazione dei tabacchi che l’autore, avendo lavorato per molti anni presso i Monopoli di Stato, ha conosciuto e cercato di difendere battendosi da delegato sindacale di base contro la privatizzazione e la successiva svendita alla American Tobacco. Una delle tante vertenze che ha visto protagonista, attento e scrupoloso battersi contro le ingiustizie e a difesa dei più deboli, il nostro autore, che oggi è segretario nazionale del sindacato Unione Inquilini, ma in passato è stato uno dei Deputati più rimpianti alla fine del suo mandato (1996-2001), tanto da meritare una paginata di ringraziamenti, apparsa su Il Manifesto, da parte di varie realtà associative del Paese.
Questa, scrive l’autore, è «la storia politico, sindacale e culturale … del “blocco operaio del tabacco”, un unicum nella storia del movimento operaio italiano…È la storia di un processo di riscatto ed emancipazione al tempo stesso collettivo e personale…Un doppio processo di liberazione ed emancipazione da due mostri: da una condizione di sfruttamento dentro la fabbrica, nei campi di raccolta e nei magazzini di prima lavorazione e da una condizione di subordinazione a casa, nel lavoro e nella società a causa della cultura dominante del patriarcato».
Sì, perché parliamo di un movimento, nato nei primi decenni del ‘900, composto da donne; uno scandalo per quegli anni ma pure per i decenni successivi tanto da incontrare forti resistenze anche nei partiti e nelle organizzazioni sindacali di sinistra e solo negli anni ’50 con la Cgil di Di Vittorio vi fu un primo riconoscimento del loro ruolo. E dire che le tabacchine, come venivano chiamate, vivevano non solo in una condizione di precariato e di sfruttamento ma anche in ambienti di lavoro così insalubri da portarle presto alla morte o, quantomeno, esporle a malattie professionali che causavano la loro espulsione precoce dal mondo del lavoro. In particolare, l’obbligo di tenere in grembo per l’intera giornata lavorativa il tabacco fermentato portava a disturbi ovarici e respiratori, artrosi, anemia, glaucoma e tubercolosi.
Nel 1905, un’inchiesta parlamentare, prendendo in esame le sole operaie al lavoro (e non le espulse per ragioni di salute, pari al 25% ogni anno), riuscì a negare tale situazione.
De Cesaris definisce questi luoghi di lavoro fabbriche/caserme, luoghi in cui era proibito parlare, sedersi, dove non erano previste pause neppure per andare in bagno, luoghi dove regnava una sorta di Kapò: la “maestra”! Spietata esecutrice dei voleri dei concessionari, era lei a decidere chi poteva lavorare, chi riassumere stagione per stagione.
Una situazione di sfruttamento e di assenza di regole che perdurò persino dopo la stipula di un contratto nazionale di settore, alla fine degli anni ‘40, le cui disposizioni rimasero largamente inapplicate dalle parti datoriali (cottimo; orario di 8-10 ore al giorno, di cui almeno 1 non pagata; nessun diritto a ferie, gratifiche e assicurazioni sociali).
Trattandosi di lavoro stagionale a chiamata, le operaie erano costrette a dare le cosiddette “regalìe” oppure a prestare lavoro domestico gratis presso le “maestre” o gli impiegati dell’Ufficio di collocamento per essere assunte o confermate di stagione in stagione.
Nel 1950, su 800 aziende tabacchicole solo 10 avevano, come previsto per legge, una camera per l’allattamento o un asilo nido, la maggior parte negava anche le due ore previste per l’allattamento stesso. Ma non basta, la dirigenza nelle aziende era esclusivamente maschile. Il clima che si respirava all’interno era di sopraffazione, con frequenti episodi nei confronti di violenze fisiche e sessuali, perpetrate da fattori e concessionari.
Diversa la situazione, dal punto di vista dei diritti basilari, per le dipendenti della Manifatture tabacchi che erano dipendenti pubbliche e già dagli anni ’30 erano protette da un sistema di sicurezza sociale relativamente esteso, pur in una situazione di lavoro massacrante.
Nell’insieme, fu un esercito di migliaia di operaie, fino a 100mila l’anno (la metà, nel Salento), che combattè impavido e unito non solo per vedersi riconosciuti diritti elementari, costituendo leghe e casse di mutuo soccorso, e, infine, aderendo alle Camere del Lavoro, ma che lottò anche a fianco di altre realtà produttive e fu in prima linea nella resistenza antifascista e negli anni successivi per il riconoscimento di diritti civili,, come quello al divorzio e all’aborto.
La produzione dei prodotti da fumo era nata nel ‘700, ma un secolo di lotte inizia solo dal 1874, anno del primo sciopero delle sigaraie, condotte da donne come l’anarchica Annunziata Gufoni di Firenze, o le milanesi che marciarono impavide contro i cannoni di Bava Beccaris a fine ‘800. E ancora, le romane grazie alle quali il tema della salute in fabbrica divenne questione politica nazionale. Donne che diedero il via ad un succedersi di scioperi che nel 1913 portò all’emanazione di un regolamento unitario per le Manifatture tabacchi poi largamente disatteso e, perciò, per decenni, fonte di conflitti soprattutto a causa del permanere del cottimo e dell’ottava ora non retribuita.
Le condizioni di lavoro insicure e insalubri, nonostante i ripetuti scioperi e le tante mobilitazioni, permasero anche nel dopoguerra e, fino agli anni ’70, tanti furono gli episodi drammatici come la strage di Calimera, nel 1960, quando in una incendio in fabbrica morirono sei operaie.
Protagoniste di queste lotte furono, tra le altre, Generosa Bonatesta, Rosa Chiantello, Ancilla Vagarè, perseguitate in fabbrica e fuori negli anni dell’avvento del fascismo e dopo la liberazione.
Il risultato di queste persecuzioni fu un crescente protagonismo politico femminile che portò le operaie del settore tabacchi in prima linea negli anni della resistenza al nazifascismo. Emersero donne, come la romana Anna Carrani, o la napoletana Maddalena Cerasuolo protagonista delle Quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943), che si videro riconosciuto il ruolo di “partigiane combattenti” e che nel dopoguerra assunsero ruoli importanti nelle istituzioni. Fu così che un’operaia come Anita Mezzalira divenne la prima donna assessora a Venezia; la leccese Cristina Conchiglia deputata con il Pci, dal 1978 al 1983; Adele Bei, tra le più attive militanti dell’Udi (Unione Donne Italiane).
Purtroppo, dopo oltre due secoli il settore di produzione e lavorazione dei tabacchi si è infranto contro il muro della globalizzazione, e così tra il 1995 e il 2010 sono state dismesse e privatizzate tutte le Manifatture Tabacchi italiane. “Un’operazione – scrive De Cesaris – realizzata in due tranche, la prima da parte dell’ETI (Ente Tabacchi Italiano), società pubblica creata ad hoc per dare una prima sfoltita e poi, a partire dal 2004, dalla multinazionale American Tobacco …Solo uno sciocco può pensare che si trattò di un fallimento industriale o che fu frutto di scelte non premeditate…Fu un ingrippo…Ciò che pagò la American Tobacco …fu una buonuscita pagata allo Stato per la soppressione del settore”.
Una pagina buia per il sindacalismo, fatta qualche eccezione per quello di base. Quanto allo Stato, miliardi di utili prodotti sfruttando questo esercito di operaie, finiti ad una multinazionale…americana. Sull’altare delle privatizzazioni!
Adriana Spera