Università e militarizzazione – Il duplice uso della libertà di ricerca di Michele Lancione – Eris Edizioni – pp. 78, euro 8,00.
Recensione di Adriana Spera
«L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento». E’ quanto recita l’art. 33 della nostra Costituzione, un articolo - che i costituenti scrissero memori di quanto accaduto negli anni del fascismo, quando gli insegnanti, per conservare il proprio posto di lavoro, furono costretti a prendere la tessera del partito fascista (nelle università solo 12 docenti su 1200 si rifiutarono) - che dovrebbe segnare la via maestra per scuola e università. Ma è ancora così? Oppure, dopo anni di definanziamento della scuola e dell’Università, dopo “riforme” tendenti a sottoporre le istituzioni scolastiche e universitarie a logiche aziendalistiche le cose sono cambiate?
Certamente sì, ma in peggio, se è vero, come è, che innumerevoli sono gli accordi sul territorio fra scuole e aziende, se i ragazzi, grazie ai percorsi scuola-lavoro introdotti dalla “Buona scuola”, sono ridotti ad essere forza lavoro gratuita per le stesse aziende. Ragazzi che, al pari di tutti i lavoratori in questo paese, rischiano, e talvolta perdono la vita, nello svolgimento dei compiti a loro assegnati.
Né va meglio per l’Università, come ci ricorda una approfondita e ben documentata riflessione del professor Michele Lancione, ordinario di Geografia Politico-Economica al Politenico di Torino, con precedenti esperienze accademiche nel Regno Unito e in Australia, con Università e Militarizzazione. Il duplice uso della libertà di ricerca, edito da Eris.
L’Università sembra aver deragliato dai propri compiti istituzionali, specialmente in questi tempi di guerra. Lo dimostra, ad esempio, il Documento di bilancio integrato 2023 della più grande industria a destinazione bellica italiana, la Leonardo (il cui bilancio per il 75% dipende dal settore della difesa e i cui clienti per l’82% sono governi), dal quale si evince che la stessa ha investito ben 2,2 miliardi di euro nel settore “ricerca e sviluppo” e “ingegneria di prodotto”, in collaborazione con 90 Università e Centri di ricerca nel mondo. Non è dato sapere quanti di questi soldi siano stati investiti in Italia, tuttavia, dallo stesso documento apprendiamo che la Leonardo, ritiene “domestici” quattro paesi: Italia, Polonia, Regno Unito Stati Uniti, alcuni di quelli che più stanno investendo in armamenti.
In particolare, Leonardo negli ultimi anni si è concentrata sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale applicata a tecnologie attinenti ai droni, in sinergia con i Politecnici di Torino, Milano e Bari, l’Alma Mater Studiorum di Bologna, la Sant’Anna di Pisa, Tor Vergata di Roma e la Federico II di Napoli.
Tecnologie che poi si traducono nella realizzazione di tali micidiali armi da guerra.
Si parla tanto di dual use di tali applicazioni ma, alla luce degli ultimi eventi, le applicazioni civili appaiono meramente residuali.
Tornando alle magre risorse a disposizione della ricerca, che subisce ogni anno tagli draconiani, di certo, la fioritura di borse di studio erogate da tali società può far gola, la sola Leonardo ne eroga ben 150, mentre la sua costola, la Fondazione Med-Or, nel corso del 2023 ha finanziato 346 borse di studio per studenti provenienti dai paesi partner di Africa e Medio Oriente. Borse di studio che, spesso, successivamente si traducono in posti di lavoro.
Anche il ministero della Difesa, con il “Piano nazionale della ricerca militare”, ha investito 34,7 milioni di euro nel “Piano nazionale di Ricerca” gestito dal ministero dell’Istruzione, che prevede ben 220 progetti “il cui sviluppo è considerato prioritario per assicurare una presenza nazionale qualificata nell’ambito dei futuri programmi di armamento” (per una informazione più approfondita, si legga anche l’articolo di Vincenzo Bisbiglia, Droni e robot. Così Leonardo sale in cattedra, apparso sul Fatto Quotidiano del 30 marzo scorso).
Lancione ci porta a riflettere su come si stia diffondendo, a partire dallo scoppio del conflitto ucraino e poi da quello di Gaza, attraverso tutti i mezzi di informazione una cultura di guerra che non ammette contestazioni, chi si oppone viene accusato di putinismo o di essere filo Hamas. Il dissenso, come dimostrano i manganelli usati contro gli studenti, non è più ammesso neppure nelle Università, che statutariamente rappresentano il luogo in cui dovrebbe svilupparsi il pensiero critico.
Il problema del duplice uso della ricerca è antico, si è posto fin dai primi del ‘900 rispetto alle armi chimiche, ma se per un periodo si sono posti dei limiti che hanno condotto a strumenti quali il Trattato di non proliferazione nucleare del 1968 o alla Convenzione sulle armi chimiche del 1997, oggi quei paletti non si pongono più, non si vogliono neppure porre perché prevalgono su tutto gli interessi economici. E così, scrive il nostro autore, «il duplice uso sembra essere un’inevitabile realtà». Una situazione determinata anche dalla estrema frammentazione della ricerca.
Insomma, se da un lato il singolo ricercatore svolge il suo pezzettino di ricerca e perciò non sempre può essere consapevole delle ricadute della stessa, dall’altro, le aziende produttrici di armamenti, forti del loro potere economico, si servono dell’investimento in quelle ricerche per avere legittimazione scientifica dalla collaborazione con le Università e queste, dal canto loro, ne ricavano prestigio politico e finanziamenti. Le imprese costruttrici di armi beneficiano del rapporto con le Università perché così facendo rivestono il loro operato di mercato di un’aura scientifica e le università possono dimostrare che le loro ricerche non sono solo inutili speculazioni teoriche ma hanno applicazioni concrete.
Ciò che ne deriva è una programmazione e una progettazione dell’offerta formativa piegata agli interessi dell’industria militare, una distorsione della ricerca pubblica, che dovrebbe invece essere libera e aperta. In definitiva, il suo asservimento al profitto.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che avrebbe dovuto evitare al paese il ripetersi di quanto è accaduto con la pandemia, non ha fatto che incrementare questi intrecci e così, ad esempio, finanzierà la nascita della Cittadella dell’Aerospazio a Torino, dove si svilupperanno, tra l’altro, progetti di droni d’attacco e aerei da caccia. Ma anche al di fuori del PNRR gli esempi di progetti simili sono numerosi e sparsi per tutta la penisola.
Bisogna «Rinunciare a collaborazioni di qualunque tipo con industrie militari – ci ricorda Lancione – significa interrompere i meccanismi culturali, sociali ed economici attraverso i quali la militarizzazione delle nostre vite si riproduce ogni giorno», altrimenti finiremo come in America, dove questo intreccio è nato per primo e da decenni le Università sono parte del military industrial complex, o in molti altri paesi come, ad esempio, Sudafrica, Brasile, Australia, Regno Unito, Israele.
Il professor Lancione ha iniziato la sua battaglia quando l’Agenzia Frontex (meglio sarebbe definirla la prima polizia militarizzata europea con il compito di respingere i migranti e con un bilancio di ben 5,6 miliardi di euro l’anno) ha commissionato al Politecnico di Torino la redazione di cartografia digitale, mappe di infografica e map book. Prodotti che per contratto non si saprà come verranno utilizzati. «Esternalizzando la creazione di carte tematiche a un ente di ricerca pubblico di prestigio internazionale quale è il Politecnico di Torino – scrive Lancione – Frontex non compra solo un servizio, ma un avallo: ora le mappe saranno “scientifiche”, in quanto uscite dall'Università, e quindi inattaccabili… in sostanza, il mio dipartimento legittima l'operato di Frontex e non ha nessun controllo su come tale legittimazione possa essere strumentalizzata». In altre parole, Frontex compra non le carte ma la propria legittimazione, tant’è che potrà modificarle in qualsiasi momento, continuando a usare il logo del Politecnico.
Allora che fare per contrastare, per fermare questi processi, per sventare questi intrecci pericolosi? Occorre mobilitarsi, fare inchiesta e contestare tutti insieme: studenti, ricercatori e professori perché «L'università è uno spazio da abitare, in cui la contestazione deve essere di casa, perché non c'è spirito critico senza dissenso, e non c'è costruzione di idee, pensiero e azione, senza coinvolgimento». Come? Seguendo l’esempio di realtà quali Boycott, Disinvest, Sanction (BDS), che denuncia da anni ciò che avviene in Palestina; la rete anti-militarizzazione statunitense Dissenters; l’Osservatorio contro la militarizzazione nelle scuole e tante altre.
Senza un’estesa mobilitazione, nel 2028 saranno destinati alla difesa ogni anno 38 miliardi di euro (oggi sono 22) pari a 105milioni al giorno. Risorse, molto probabilmente, sottratte a scuola, ricerca e sanità.
Il Professor Lancione conclude con un invito agli studenti «In un tempo, quello contemporaneo, dove sono ormai chiari i contorni di una Terza Guerra Mondiale, è ancor più importante che restiate vigili e affermiate un principio semplice: l’Università non si può e non si deve militarizzare, o non è più Università».
Adriana Spera