Le verità spezzate, di Alessandro Robecchi – editore Rizzoli, ottobre 2024 – pp. 276, € 16,00.
Recensione di Adriana Spera
Le verità spezzate, il nuovo libro di Alessandro Robecchi, è un intreccio tra un cold case degli anni Quaranta del secolo scorso e un delitto dei nostri tempi, un romanzo su un tema quanto mai attuale, come i condizionamenti sociali, culturali e politici riescano a influire sulla vita delle persone, specialmente quando sfociano nella loro espressione più stupida, tipica dei regimi autoritari: la censura.
Sullo sfondo, come sempre nei romanzi di Robecchi, Milano, quella piccola e nebbiosa degli anni 30-40, e quella di oggi, sempre affaccendata e nevrotica (seppure con una vena di nostalgia per la vecchia città), dove regnano disuguaglianze e speculazione. Sempre più una città per pochi eletti.
Il protagonista, Manlio Parrini, un affermato regista che, oltre trent’anni prima, ha deciso, all’acme della carriera, di non fare più nessun film perché «il cinema è un luogo senza verità»; abita nella dependance di una grande villa il cui proprietario, nonché suo anfitrione, prima di morire gliel’ha svenduta. E così Manlio si è ritrovato con «uno stupore piccolo, innocuo, non paragonabile alla sorpresa di diventare proprietario di una specie di reggia di campagna, ma in città, nella ridente città di Milano, dove quelli che ci abitano considerano belli i posti di cui si può dire: “Che meraviglia, non sembra di stare a Milano”».
Improvvisamente, Parrini. passando davanti alla statua del Manzoni, in una piazza San Fedele immersa in un tramonto settembrino, si accende una sigaretta e ripensa a quando lì, prima dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, c'era la questura. Ricorda il commissario De Vincenzi, il personaggio protagonista dei romanzi di Augusto De Angelis, padre del noir italiano morto in circostanze misteriose nell’ultimo scorcio del fascismo, e pensa che sulla sua fine misteriosa si potrebbe fare un grande film. «Un film sull’impossibilità di essere liberi…la storia di un uomo, uno che aveva attraversato gli anni Venti e Trenta, anni in cui aveva avuto i suoi successi, ma aveva anche dovuto correggersi, controllarsi, autocensurarsi, prendere le misure. Camminare sul filo di quel che si può dire e di quel che non si può dire».
E così Parrini si mette a indagare sulla morte dello scrittore, ufficialmente deceduto per le lesioni riportate a seguito di una colluttazione, da lui stesso provocata, con un fascista. Il nostro regista, aiutato da vari personaggi che incontrerà via via, scoprirà che, in realtà, si era trattato di un vero e proprio agguato ad opera di un terzetto di picchiatori, di cui uno soltanto venne catturato grazie ad un integerrimo maggiore dei carabinieri.
Per cosa era reputato meritevole di una spietata spedizione punitiva il De Angelis? Egli aveva iniziato la sua carriera di scrittore come giornalista (famosi i suoi reportage da Parigi e Ginevra) e commediografo, ma i suoi testi teatrali non avevano riscosso un gran successo e così, per sopravvivere, aveva iniziato a scrivere dei noir il cui protagonista era, appunto, il commissario De Vincenzi «geniale e riflessivo, uno che leggeva i poeti francesi, che misurava le sue indagini su delitti e omicidi col metro della psicologia umana, che conosceva Freud e si addentrava nei labirinti della mente dei personaggi, mentre là dentro (in questura, ndr) invece erano solo botte e voci urlate».
Insomma, un poliziotto anomalo per quegli anni «gentile, rispettoso, uno che dava del voi anche ai sospettati, uno così lontano dalla retorica fascista che pretendeva tutto vestito di rude e di nero, muscoloso… De Vincenzi, pessimista e dark, ombroso, poco propenso all'ottimismo burbanzoso e sbruffone del regime, lontanissimo dall'Uomo Nuovo che la dittatura voleva forgiare. Andiamo, un poliziotto del Ventennio…Così poco fascista, insomma, così poco maschio e volitivo. Un'eccezione, una mosca bianca che voleva volare con altre mosche, quasi tutte nere… ».
Ma un regime che interpretava il potere esclusivamente come violenza, non poteva accettare un siffatto personaggio e, soprattutto, non poteva tollerare che vi fossero opere letterarie che parlassero di delitti, perché in Italia il crimine non esisteva più. Così, come era stata cancellata la cronaca nera dai giornali, per cui non dovevano essere raccontati fatti efferati, anche il giallo era inviso al regime e, al più, poteva essere ambientato nei bassifondi e all'estero o, almeno, l’assassino doveva essere straniero; non si poteva parlare esplicitamente di suicidi, occorreva restare nel vago e catalogarli come morti misteriose; quanto al colpevole, non doveva avere nessuna possibilità di farla franca, ne sarebbe andato del prestigio delle forze dell'ordine.
L’insofferenza del regime fascista per il genere giallo - che stava lì a dimostrare «che non c’è argine al delitto, che non è questione di collocazione, o classe sociale o devianza, che nessun ambiente è salvo dalla tragedia» - se all’inizio si manifestò sotto forma di censura e di pressioni sugli autori e gli editori, dal luglio del 1941 si passò al divieto di pubblicazione di gialli a dispense, quindi fu messa al bando la collana dei “Gialli Mondadori”, che in Italia aveva dato il nome al genere. Infine, nel 1943 furono definitivamente vietate tutte le opere di narrativa poliziesca. «Il Ministero della Cultura – recitava l'ordinanza del Minculpop – dispone il sequestro di tutti i romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita». Mai nome di Ministero fu più corrispondente al ruolo!
«Augusto De Angelis era in qualche modo il padre del giallo italiano, aveva inventato un suo stile, aveva affilato il suo sguardo in un periodo in cui gli sguardi affilati non piacevano, non erano graditi, il manganello sembrava più efficace della psicologia, la repressione più importante della giustizia. Ci volevano legge e ordine, il disordine non era contemplato, il giallo era considerato con sospetto, poi addirittura vagliato con occhi severi dalla censura, e alla fine vietato del tutto».
Dopo il 25 luglio e fino all’8 settembre 1943, De Angelis, come tanti altri, credeva che quel regime da operetta, comandato da ignoranti e capace di governare solo con la violenza, fosse ormai caduto e così aveva ripreso a fare il giornalista per la Gazzetta del Popolo di Torino. Ma fu proprio a causa di quegli articoli che venne arrestato dai repubblichini di Salò con l’accusa di antifascismo, condotto nel carcere di Como, dove fu detenuto per circa dieci mesi e torturato. Ne uscì stremato e proprio allora, a Bellagio, venne aggredito e picchiato a morte da un terzetto di fascisti capeggiato da tal Pietro Varoni.
Il nostro regista, il Maestro Parrini, come già detto, non ha voluto fare altri film dopo il suo più grande successo, Le verità spezzate, perché è convinto che «la verità non esiste, la libertà è una convenzione, si allarga e si restringe a seconda del periodo storico, dell'ottusità di chi comanda, della volgarità di chi la vieta e la ostacola», perciò un film sulla tragica morte di De Angelis può essere «un film contemporaneo…Non un film su uno scrittore di gialli degli anni Trenta, ma un film su di noi, sui tempi bui, sulla dittatura del conformismo, sul nostro piccolo cedere spazi di libertà perché ci sembrano dettagli trascurabili…non la biografia di un uomo, era la biografia di una Nazione, e poi anche la metafora del lavoro culturale in questo Paese. Era il sussurro del “non si fa”, “non sta bene”, era la dittatura del “meglio di no” per quieto vivere…un film sull'aria che manca, che si fa rarefatta, sul restringersi degli spazi di libertà».
Come non pensare all’oggi, alle tante forme di censura, all’occupazione della più grande azienda culturale italiana, ai bavagli che i potenti proprietari di giornali, radio e televisioni possono infondere sull’informazione, ma anche semplicemente ai condizionamenti imposti dal mercato, dall’economia capitalista, su tutto, produzione artistica, culturale e persino scientifica incluse. Insomma, sulla realtà che viviamo o, meglio, che crediamo di vivere.
Condizionamenti con i quali dovrà fare i conti anche il Parrini quando, per il film su De Angelis, proveranno a imporgli la sceneggiatrice (lui vuole la giovane e anticonvenzionale Sara De Viesti), l’attore protagonista (gli vogliono imporre un mascellone americano) e, addirittura, la location del film (non Milano, ma la riviera ligure, perché la Regione Liguria è pronta a dare un finanziamento). Fortunatamente, egli riuscirà a scovare in Francia un consorzio di produttori indipendenti che lo lasceranno libero di fare il film come vuole.
Dicevamo all’inizio che il romanzo ruota attorno a due delitti, il cold case del 1944 di Augusto De Angelis e l’omicidio della vicina del nostro regista, la signora Nora Vuillermoz in Bastoni, ricca proprietaria immobiliare, vedova del suo vecchio padrone di casa. Una rentière, come ce ne sono tante/i nella Milano della speculazione immobiliare. Nel corso delle indagini si scopre che la signora da ognuno dei suoi 77 appartamenti, tutti in zona centrale, riscuote una quota di affitto in nero che poi, con la complicità di un nipote, deposita in Svizzera.
Più di un elemento conduce alla colpevolezza del ragazzo che però è figlio di un noto banchiere. Ed ecco che scattano i condizionamenti, stavolta sulla giustizia. Il procuratore capo fa di tutto perché la PM lo scagioni e, alla fine, con un quadro indiziario piuttosto debole, a pagare sarà il personaggio più fragile.
I potenti come sempre se la cavano con accuse lievi o con una leggina ad hoc.
Il nostro regista non può che trovare conferma della propria teoria sui condizionamenti «il problema vero, il problema di sempre e di tutti, pensa ora Manlio Parrini, non è che le verità si spezzano, ma che le verità non ci sono, non esistono, semplicemente. Sono fatte di una sostanza ambigua e molle, inconsistente. Le verità che conosciamo sono solo quelle che noi decidiamo siano verità».
Ancora una volta, Alessandro Robecchi, grazie alla sua consolidata maestria, coglie nel segno e, partendo da lontano, ci porta a riflettere su un passato che è tornato a essere attuale.
Adriana Spera